La porta dell’inferno si trova dopo l’ultimo posto di blocco che dà l’accesso a Huljajpole, un piccolo centro che dista pochissimi chilometri dal fronte, in alcuni punti appena due.
Nel silenzio e nella pace della campagna, tra gli alberi e le case abbandonate, si nascondono i soldati ucraini. Di fronte a loro, i nemici, gli stessi che di questa cittadina mesi fa, non hanno lasciato nulla. Nemmeno l’elettricità e l’acqua.
Natalia, una signora anziana, molto magra, è costretta ad andare a prenderla in un pozzo con un grosso secchi. Le chiedo come si possa vivere così vicini al fronte. "Di giorno mi occupo del mio giardino, coltivo le patate – risponde lei - mentre di notte vado a dormire in cantina, perché lì mi sento al riparo". Non se n’è mai andata perché non vuole lasciare la sua casa e gli animali che cura, oltre ai suoi cani.
Come in un girone dantesco - in mezzo al silenzio e al rumore creato solo dagli oggetti rotti mossi dall’aria – ogni tanto appare qualcuno che cammina stancamente, o in sella a una bicicletta. Sembrano tutte anime che si aggirano senza direzione. Al pozzo dove è andata Natalia, arriva un’altra coppia, Alona e Igor. Anche loro stanno qui perché hanno i genitori ultraottantenni e non possono lasciarli soli. Tanto al pericolo sono abituati, dicono. “Ma qui non è rimasto nulla”, faccio notare io. Indicano senza scomporsi la scuola alle nostre spalle, completamente distrutta “come il resto di Huljajpole”, aggiungono.
Ci raggiunge Bogdan, della brigata 102 di Ivano Frankivsk. “Guarda questo cratere”, mi dice, “l’avranno fatto uno, due mesi fa, al massimo. Ogni giorno bombardano, anche la notte scorsa, me l’hanno detto quelle due donne laggiù”. Mi chiede però di non fare foto e di non rendere riconoscibili i palazzi anneriti dagli incendi che scoppiano quando i razzi li colpiscono. Tra questi palazzi troviamo infatti Sergej, che fa il volontario per “Unity for people”, un’organizzazione che insieme al sindaco di questa disgraziata cittadina, ha convertito un grande scantinato in un enorme rifugio dove accogliere chi non sa dove andare quando arrivano i razzi russi.
“Qui abbiamo generatori e l’elettricità per ricaricare il cellulare, una sala tv, docce, la lavanderia”. Questo posto può resistere anche sotto i missili S-300, dice Sergej, invitandomi a entrare. Quando scendo le scale, vedo anche una bottega da parrucchiere e poi un piccolo negozietto con un bar, non manca davvero nulla.
Anche l’Ucraina ha trovato il suo angolo di sicurezza sottoterra, come in molte altre guerre del passato, un angolo che permette di sopravvivere e allo stesso tempo di riunire persone per farsi forza a vicenda.
“Ma come vi accolgono i civili che sono rimasti qui?”, chiedo. “Molto bene”, è la risposta di Bogdan, “specialmente i bambini, che quando ci vedono ci abbracciano, qualche volta gli porto dei dolcetti…Non ci manca il cibo, ma chi ci incontra ci aiuta per esempio per fare il bucato”.
“Quando è iniziata l’invasione ci avevano dato due settimane e invece siamo ancora qui continua ancora Bogdan, che mi fa notare il vantaggio di avere soldati disseminati in piccole unità tattiche piuttosto che in grossi battaglioni. I russi magari sanno anche dove siamo – aggiunge - ma non conviene loro colpirci sprecando razzi costosissimi che ucciderebbero solo cinque o dieci di noi”.
“La loro brigata è una brigata composta all’80% da uomini e donne della difesa territoriale, ovvero civili che hanno indossato la divisa. Ci sono operai, businessman, professori, ma anche giudici e procuratori, e sono tutti qui su base volontaria. Bogdan spiega che la guerra gli consente di andare a casa in licenza solo 10 giorni all’anno e che da quando è stato chiamato, lo scorso gennaio, non ha più visto la sua famiglia. “Quando sono andato via mio figlio non parlava, adesso invece ha imparato”.
Delle 12'000 persone che animavano Huljajpole, oggi ne restano, anzi ne resistono, al massimo 2'000. Tutte decise a rimanere, a qualunque costo, nella loro verdissima terra.