Alle cerimonie di insediamento dei presidenti degli Stati Uniti è assai rara la presenza di alte cariche statali di altri Paesi. In particolare delle potenze rivali. Non è così per la seconda inaugurazione di Donald Trump, a cui partecipa anche il vicepresidente cinese Han Zheng. Si tratta di un elemento senza precedenti, ma che non avviene per caso. Mantenendo fede alla sua indole nel rompere con le tradizioni diplomatiche, nelle scorse settimane il tycoon aveva invitato nientemeno che Xi Jinping.
Il presidente cinese si è negato con garbo: impossibile per il leader della seconda economia mondiale mostrarsi tra gli astanti ad applaudire l’incoronazione di colui che qualche anno fa ha dato vita alla guerra commerciale e tecnologica tra Washington e Pechino. Ma il segnale è stato registrato e ascoltato con attenzione. A Pechino si era inizialmente valutata la possibilità di inviare Wang Yi, ministro degli esteri e capo della diplomazia del partito comunista, l’uomo chiave della politica internazionale cinese. L’invio di Wang avrebbe consentito di partire immediatamente con consultazioni bilaterali pratiche, ma avrebbe anche significato dare via libera a un incontro col segretario di Stato Marco Rubio, che finora è ancora ufficialmente sotto sanzioni cinesi per le numerose iniziative legislative considerate ostili dal Partito comunista.
Alla fine si è optato per il vicepresidente Han. Una scelta di compromesso, che garantisce sì a Trump la presenza della seconda carica dello stato, ma che ha un ruolo più cerimoniale e meno strategico, senza ricoprire alcun ruolo apicale nella gerarchia del Partito. Han ha subito incontrato l’omologo JD Vance, a cui ha detto che “gli interessi comuni e lo spazio per la cooperazione Cina-Usa sono enormi”. Assai significativo l’incontro con Elon Musk e un gruppo di imprenditori statunitensi. La Cina ripone nel capo di X e Starlink grandi speranze, tanto che molti lo vedono come il possibile vero interlocutore di un’amministrazione altrimenti piena di falchi anti cinesi. Negli scorsi giorni, Bloomberg ha persino avanzato l’ipotesi che la Cina possa considerare una cessione parziale della divisione americana di TikTok all’alleato di Trump, che nel Paese asiatico ha enormi interessi con Tesla. Ipotesi che ha diversi elementi verosimili, ma che appare di difficile realizzazione anche per gli enormi interessi sul funzionamento dell’algoritmo dell’applicazione di video brevi, di proprietà del colosso cinese ByteDance.
In ogni caso, la sensazione è che Trump voglia instaurare un rapporto diretto con Xi. Lo dimostra il colloquio telefonico di venerdì scorso tra i due leader. Diversi commentatori cinesi hanno evidenziato che, nel 2021, Joe Biden aspettò diversi giorni dopo l’ingresso alla Casa Bianca prima di parlare con Xi. Apprezzato anche il tono. “Se si guarda al messaggio di Trump, è molto migliore, cooperativo e positivo di quello a somma zero di Biden”, ha scritto su X il noto commentatore Chen Weihua. “Biden non ha mai detto di lavorare insieme per rendere il mondo più pacifico e sicuro”. Ancora più rilevante il segnale che arriva dalle voci secondo cui Trump vuole visitare Pechino già nei prossimi mesi, passo mai fatto da Biden.
Il clima momentaneamente favorevole è alimentato dallo stop al divieto di TikTok, primo atto del secondo mandato. Ma anche dal modo in cui Trump sta fin qui trattando il dossier Taiwan. Dopo la vittoria del 2016 parlò con l’allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen, primo e fin qui unico scambio tra leader di Washington e Taipei dopo il 1979, quando gli Usa avviarono le relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino. Proprio alla vigilia del primo insediamento del gennaio 2017, il Ministero degli Esteri cinese mandò un forte monito: “Se Trump continuerà a provocare su Taiwan, la Cina sarà costretta a tirare via i guanti”. Il riferimento non era solo all’irrituale telefonata con Tsai, ma anche all’ospitalità concessa a un’ampia delegazione taiwanese, in cui figuravano non solo deputati ma anche funzionari della sicurezza. La spedizione era guidata da You Si-kun, allora presidente del parlamento di Taipei e membro fondatore del Partito progressista democratico (DPP) di governo, che Pechino ritiene “secessionista”. Stavolta, gli otto deputati arrivati da Taipei sono invece guidati da Han Kuo-yu, presidente del parlamento e tra i leader del Kuomintang, il partito d’opposizione dialogante con Pechino.
Insomma, rispetto a otto anni fa il clima sembra molto diverso. Tenendo a mente l’ombra dei possibili dazi minacciati da Trump e i numerosi nodi irrisolti tra le due potenze, viene però da aggiungere: per ora.