Il cellulare squilla all’improvviso. È la direttrice amministrativa dell’ospedale di Léogâne. Vuole aggiornarci sulle condizioni del piccolo Thomas. Ci passa al telefono Roseverla, la giovanissima mamma. Ha 14 anni. L’avevamo incontrata – insieme al collega haitiano Marc Kingtoph - tre giorni prima all’ingresso del “Saint Croix”, il centro sanitario di questa cittadina a 30 chilometri dalla capitale.
Il bimbo sta male. Soffre di malnutrizione. Devono trasferirlo perché non risponde bene alle cure. “Mangia poco e male” mi aveva detto il pediatra.
Uno scricciolo di bimbo: tre mesi e mezzo ma sembrava avesse tre settimane.
Martissant, alla periferia della capitale Port-au-Prince. E' una delle bidonville controllate dalle gang.
Il 40% degli haitiani è a rischio malnutrizione. Ecco cosa resta 10 anni dopo il sisma e 10 miliardi di dollari di aiuti più tardi. Un paese che sta colando a picco nel mare incantevole dei Caraibi. Dall’altra parte dell’isola di Hispaniola ci sono i resort dominicani. Da questa, la maledizione della povertà, radicata nello sfruttamento coloniale e nella corruzione di classi politiche che hanno dilapidato le poche risorse.
Resilienza, dignità, caparbietà. Certo, le leggi sul viso composto della signora Mireille nel suo cortile di una casa senza acqua corrente né scarico, con la latrina nel cortiletto melmoso. Questa gente non ne può più di vivere ai margini della Storia.
Il terremoto provocò un numero infinito di morti (da 100mila e 300mila, secondo stime impossibili da verificare fino in fondo). E di feriti. E di sopravvissuti mutilati: “Che fine ha fatto quel ragazzino che portammo all’ospedale senza le due gambe? C’è qualcuno che gli ha procurato delle protesi”, mi chiede la moglie dell’ex-primo ministro Jean-Henry Céant. Con lui parliamo della crisi politica attuale durante la cena a un tavolo dell’elegante Hotel Montana, che si sbriciolò il 12 gennaio 2010, seppellendo dodici persone. Dalla terrazza sulla collina di Petionville lo sguardo scivola verso il mare.
Si scorgono le bidonville che punteggiano la costa qui a Port-au-Prince: Martissant, Cité Soleil e Bel Air, dove
Le piccole rivendite per giocare al lotto sono ovunque. E spesso con nomi a metà tra il fatalismo e la religione "E' Dio che decide", "Innocente", "Fiducia"
malgrado il nome il tanfo è fastidioso persino all’aperto.
Dieci anni fa, con la scorta e con il benestare delle gang, si riusciva ad andare per rendersi conto del degrado e della povertà.
Ora non più. “Una terra senza legge, l’unica legge è quella del terrore” mi dice l’avvocato Marie Rosy Auguste, del Reseau per la difesa dei diritti umani. La presenza e la violenza delle bande armate ormai è ramificata ben al di là di Port-au-Prince. Non pochi politici – sia esponenti del governo che del Parlamento – sono accusati di connivenza con le gang. O comunque di mantenere contatti per usare queste milizie di disperati in caso di necessità elettorale.
Attraversando Martissant occorre abbandonare la strada principale e deviare tra le casupole. Altrimenti si rischia di finire in una delle sparatorie quotidiane. Bande armate che si sfidano per controllare qualche metro in più di quartieri fatiscenti. Dall’auto, vedo pozze di liquami scuri, un paio di maiali che grufolano tra i rifiuti. Identica desolazione, miasmi e marciume accumulato sul bordo strada. Non riesco nemmeno ad avvicinarmi invece a Canaan, la nuova bidonville, frontiera del fallimento umanitario post-sisma alla periferia della capitale.
Migliaia di baracche si sbriciolarono per il portentoso oscillamento della terra dieci anni fa. E migliaia di famiglie hanno trovato riparo – anni dopo - in questa nuove bidonville, città di lamiere che rifrangono la luce quando le guardi dal finestrino dell’aereo.
Inflazione e caro-vita hanno provocato proteste contro la corruzione e il governo. Le rimesse degli emigrati haitiani costituiscono un terzo del PIL.
Ero arrivato ad Haiti poco più di 36 ore dopo il terremoto, per tentare di raccontare alla radio una devastazione su scala sproporzionata. C’erano le storie dei morti e dei sopravvissuti. E la mobilitazione. Quartieri trasformati in ospedali da campo. Disperazione e smarrimento. Ma la condivisione di un dolore e di una ferita collettiva, l’ardito sforzo di provare a lenirla.
Oggi si respirano rabbia e fatalismo. All’inizio di gennaio c’è stata una tregua nelle manifestazioni anti-governative e anti-corruzione. In autunno per oltre 2 mesi c'era stato il "peyi lock", la paralisi del paese a causa delle proteste. “Non credo esistano altri paesi dove la gente possa resistere così tanto senza rivoltarsi” mi dice James Darbouze, filosofo e ricercatore. “Non è vero che gli haitiani sono sempre in ebollizione contro il potere. Questo è una mobilitazione per dire che il popolo non ne può più”. Tutti puntano il dito contro il presidente Jovenel Moïse. È accusato di corruzione. Lui non cede. L’opposizione nemmeno. Il paese è spaccato da una faglia proprio come quella su cui poggi l’isola.
“Dobbiamo fare uno sforzo e trovare un compromesso” mi dice l’ex-primo ministro. Domani, 13 gennaio, scade il
2 milioni di haitiani non hanno accesso all'acqua potabile e pulita. Questo è un punto-vendita di acqua nel centro di Port-au-Prince. Il proprietario dice di pagare regolarmente la bolletta, poi rivende l'acqua
mandato di una parte del Parlamento. Lo stallo – e un inasprimento dello scontro istituzionale – sono dietro l’angolo.
Haiti barcolla, ma sta in piedi con il denaro di chi è scappato. Le rimesse costituiscono un terzo del PIL. Gli haitiani continuano a fuggire altrove: USA, Canada, Francia ma anche Cile e Brasile.
“L’altra sera passavo dalla principale piazza con mia moglie. Le ho detto: guarda, forse l’80per cento o più in questa piazza ha tra 5 e 15-18 anni. Questo è l’avvenire del paese”, mi dice Philippe Beauliere, direttore di una scuola che nel 2003 scelse di tornare ad Haiti. Cosa hanno bisogno questi ragazzi? “Scuola, servizi sanitari, qualità della vita e lavoro. Se non offriamo opportunità, in 10 anni l’instabilità si aggraverà”, è la sua riflessione.
Il piccolo Thomas non ha ancora l’età per andare a scuola. Sua mamma, la 14enne Rosaverla che ora ci ha chiamato al cellulare, non aveva i soldi nemmeno per la prima visita pediatrica a Léogâne.
Roseverla durante la visita pediatrica all'ospedale di Léogane
Servivano una decina di dollari. Troppi per lei, prosopopea involontaria delle statistiche che cinicamente derubricano il 60% degli haitiani nella “soglia di povertà”, anche estrema. Invece queste percentuali hanno nomi e volti.
Dieci anni fa, forse, Roseverla avrebbe trovato assistenza in uno dei tanti ospedali da campo, montati da una babele di ong e agenzie governative accorse qui a portare soccorso alla popolazione stremata dal terremoto.
Quegli aiuti furono essenziali a salvare migliaia di vite. Ma è l’impatto a medio e lungo termine che non si vede. Il sistema sanitario di Haiti oggi, appare identico al momento che ha preceduto la scossa assassina: al collasso.
Due lustri dopo, è questa la sfida del piccolo Thomas.
Speriamo riesca a superarla.
Dalla radio
Contenuto audio
MODEM del 9.01.2020 Il reportage di Emiliano Bos da Haiti
RSI Info 12.01.2020, 10:21
RG 12.30 del 10.01.2020 Emiliano Bos a una quarantina di chilometri dalla capitale Port-au-Prince ha incontrato Philippe Beauliere, direttore di una piccola scuola privata. Che dopo oltre 20 anni vissuti tra Stati Uniti e Canada, nel 2003 tornò ad Haiti
RSI Info 12.01.2020, 10:24
RG 12.30 dell'11.01.2020 Il reportage di Emiliano Bos ad Haiti 10 anni dopo il devastante terremoto che provocò 100'000 morti. L'economia è piegata dalla crisi politica
RSI Info 12.01.2020, 10:24
RG 12.30 del 12.01.2020 Il reportage di Emiliano Bos, nella capitale con gli sfollati
RSI Info 12.01.2020, 13:57
RG 12.30 del 12.01.2020 La diretta di Emiliano Bos e le considerazioni su Haiti
RSI Info 12.01.2020, 14:13