Inchiesta

Il whistleblower israeliano e l’ex detenuto palestinese

Lo sguardo incrociato di due testimoni alla RSI: un operatore sanitario dalla prigione di Sde Teiman e un attivista scarcerato da poco in Cisgiordania

  • 25 giugno, 05:35
  • 25 giugno, 05:35

Israele: condizioni di detenzioni degradanti

Telegiornale 20.06.2024, 20:00

  • RSI
Di: Emiliano Bos / cellula inchieste RSI 

La talpa israeliana costretta a restare anonima e l’attivista palestinese che vuole metterci la faccia. Il primo denuncia dall’interno il trattamento inflitto dagli israeliani ai palestinesi catturati nella Striscia di Gaza e detenuti nell’ospedale da campo del controverso carcere di Sde Teiman, già ribattezzato la “Guantanamo d’Israele”. Il secondo racconta le vessazioni da lui subite durante quasi due mesi e mezzo di prigionia in Cisgiordania, tra umiliazioni, molestie sessuali e oltre 30 chili di peso persi. Una narrazione parallela con elementi comuni, in uno scenario di abusi, violazioni dei diritti e dei codici etici, trattamenti degradanti.

La cellula inchieste della RSI ha raccolto le loro voci in Israele e a Betlemme. Due sguardi che s’incrociano a distanza, due testimonianze che offrono nell’insieme un singolare documento sulle condizioni cui sono sottoposti migliaia di palestinesi.

Le richieste di chiarimento della RSI non hanno ricevuto riscontro. L’IDF, l’esercito israeliano, in una mail rimanda al ministero della sanità. Che a sua volta rimpalla la responsabilità e indica di rivolgersi alle stesse forze armate dello Stato ebraico. Il servizio carcerario di Israele, invece, non ha fornito alcuna risposta malgrado ripetute sollecitazioni.

“PAZIENTI AMMANETTATI MANI E PIEDI, NUDI, BENDATI”

RSI Info 23.06.2024, 17:26

“Pazienti ammanettati mani e piedi, nudi, bendati”

L’interlocutore israeliano – di cui dobbiamo tutelare l’identità – non è autorizzato a rilasciare dichiarazioni. Rischierebbe una denuncia e un probabile arresto. Ha lavorato come operatore sanitario all’interno dell’infermeria del carcere di Sde Teiman, una tensostruttura all’interno di una base militare. Qui - nel deserto del Neghev a una trentina di chilometri da Gaza - vengono portati i palestinesi catturati nella Striscia.

“Ho visto circa 15-20 pazienti in totale. Erano tutti ammanettati, con ogni singolo arto attaccato ai bordi del letto, con manette metalliche. Non solo: ma erano tutti bendati e nudi, a parte un pannolone”. Racconta che avevano una specie di coperta di pile, l’unico riparo all’interno di una grande tenda esposta al freddo di notte, in zona desertica.

“È una forma di tortura, né più né meno” aggiunge il whistleblower israeliano, che opera nell’ambito della sanità nel suo paese. “Si trasforma un essere umano in una sorta di oggetto immobile su un letto, a cui vengono prestate delle cure che in buona parte dei casi molto discutibili”. Lo statuto legale dei palestinesi trasferiti dall’esercito a Sde Teiman non è chiaro. Ma dal punto di vista medico e sanitario, aggiunge la fonte della RSI, “questo non ha alcuna rilevanza. Noi non siamo giudici né investigatori. Io non so chi siano questi pazienti. Devo vederli tutti come esseri umani e devo curarli allo stesso modo. È il motivo per cui ho deciso di parlare: credo che oggi questo principio sia stato infranto ad ogni livello”.

L’ufficio stampa dell’esercito di Israele – in una mail alla RSI – afferma che la competenza della struttura medica di Sde Teiman ricada sul ministero della Sanità, ma dichiara comunque che l’uso delle manette ai pazienti “è motivato da questioni di sicurezza”. E aggiunge che il ricorso al pannolone “è limitato ai pazienti che hanno subito un trattamento medico o un intervento chirurgico”. Spiegazioni che appaiono in netto contrasto con la nostra testimonianza e con altre analoghe riportate da BBC, Guardian e CNN.

FOTO 2 - una rara immagine dell'interno del carcere israeliano di Sde Teiman ottenuta dalla CNN.jpg

Un’immagine dell’interno del carcere di Sde Teiman tratta da un’inchiesta della CNN

Sde Teiman, una “bolla senza diritti”

Sde Teiman è un luogo “dove vengono calpestati i diritti civili”, ha detto ancora la fonte israeliana alla Cellula inchieste RSI. “Questa tenda nel deserto è una bolla all’interno di Israele, dove è in corso una soppressione dello stato di diritto”.

Denunce documentate anche dall’organizzazione non governativa “Physicians for human rights” (“Medici per i diritti umani”), dal Centro per la difesa delle libertà e dei diritti civili “Hurryyat” e da altri organismi sia palestinesi che israeliani. Stando a queste organizzazioni, almeno 35 detenuti palestinesi sarebbero morti finora in questo carcere. Al suo interno, ne sono rinchiusi circa un migliaio. Le ONG denunciano gli abusi e le condizioni di detenzione dei palestinesi, costretti in ginocchio e ammanettati. E hanno rivolto diverse istanze alla Corte Suprema israeliana per la chiusura di Sde Teiman. I giudici potrebbero decidere a breve.

Il nostro interlocutore – pur non avendo avuto accesso diretto al carcere – ha potuto vedere alcune foto scattate all’interno di Sde Teiman. “I prigionieri palestinesi avevano ferite da decubito sul dorso del piede, perché trascorrono in ginocchio gran parte della giornata. E quando sei in quella posizione per tante ore, il peso finisce lì. Non ho mai visto nulla del genere.

Una persona normale dopo 20 minuti - se non fa yoga – prova dolore in quella posizione……stare mezza giornata o comunque otto, nove ore così… è allucinante”.

“TERAPIA COME PUNIZIONE CONTRO I PALESTINESI”

RSI Info 23.06.2024, 17:27

Sde Teiman, dove finiscono i prigionieri di Gaza

RSI Info 21.06.2024, 13:44

  • Foto ottenuta dalla CNN

“Terapia come punizione contro i palestinesi”

Il trattamento sanitario dei detenuti palestinesi non avviene solo a Sde Teiman. Ma anche nelle strutture sanitarie israeliane. Che subito dopo il 7 ottobre ricevettero migliaia di feriti. Proprio in quelle ore, il whistleblower prestava servizio in un ospedale pubblico in Israele. “Ricordo di aver visto un paziente palestinese…è arrivato nudo, bendato… avrà avuto 15 o 16 anni… è stato sottoposto a una procedura invasiva mentre era sveglio: senza ottenere un consenso informato e senza spiegargli in arabo quello che stavano facendo. E con un uso assente o minimo di antidolorifici per una procedura estremamente dolorosa”. Erano i momenti concitati e drammatici in cui Israele era sotto shock per gli attacchi di Hamas, in cui circa 1200 tra civili israeliani e militari sono stati massacrati dai terroristi. Eppure, dice la fonte alla RSI, anche in queste situazioni “è importante riconoscere una dimensione umana, per quanto questa persona abbia compiuto una scelta che non condividerei mai e probabilmente ha commesso crimini terribili…io non lo so”. In questo caso, aggiunge, “la terapia era diventata quasi una forma di punizione.

È stato uno dei momenti più difficili almeno nella mia vita professionale. Una di quelle cose di cui non mi dimenticherò”.

“IO SONO COMPLICE”

RSI Info 23.06.2024, 17:28

“Io sono complice”

Dilemmi di natura etica e morale s’intersecano nel percorso anche personale di questo whistleblower. Che ha trovato il coraggio di denunciare quella che definisce una “disumanizzazione” dei palestinesi da parte della società israeliana. Ma non senza un travaglio interiore, che lo ha spinto a interrogarsi anche sulle dinamiche all’interno della sanità in Israele. Dove molti professionisti si sono rifiutati di garantire assistenza ai palestinesi, in violazione dei codici deontologici.

“In alcuni casi, io sono stato presente di fronte ad evidenti violazioni dei diritti umani e non ho trovato il coraggio di parlare. Ho avuto paura: questo è il momento in cui emerge la mia complicità” scandisce la fonte nella lunga conversazione con la RSI. Parla di “complicità” del personale medico che vive e lavora in Israele, coinvolto nell’assistenza ai detenuti palestinesi. “Non importa se questi palestinesi siano di Hamas, della Jihad islamica o se siano insegnanti in una scuola. Il personale sanitario e gli ospedali hanno il dovere di accettare tutti. Questa è l’etica medica di base”. Una riflessione che lo ha portato a sentirsi coinvolto in prima persona, nell’esercizio delle sue funzioni: “Io sono complice in quello che Israele fa ogni giorno e in quello che noi facciamo come sanità pubblica nei confronti dei detenuti palestinesi: io mi trovo all’interno del sistema che perpetua questo tipo di cultura…”.  

Un tormento personale che si trasforma in sussulto di reazione di dignità per consegnare ad altri – in questo caso alla RSI – la propria testimonianza: “Non ho grandi dubbi sul fatto che un giorno io possa essere accusato, perché coinvolto nel trattamento dei detenuti. Per questo ho il dovere di parlare delle loro condizioni: forse per un certo senso di giustizia. Però c’è anche un grande senso di colpa”.

FOTO 3 - La cosiddetta chiave del ritorno del campo profughi palestinesi di Aida a Betlemme, accanto al centro giovanile diretto da Munther Amira (Foto RSI).PNG

La cosiddetta “chiave del ritorno” dei palestinesi del campo profughi palestinesi di Aida a Betlemme, accanto al centro giovanile diretto da Munther Amira

  • RSI

L’incursione notturna e l’arresto

La “disumanizzazione” descritta dal whistleblower israeliano dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre – secondo molti – non riguarda solo i palestinesi catturati nella Striscia di Gaza. Ma anche quelli arrestati dall’esercito dello Stato Ebraico in Cisgiordania. Viene da lì l’altro testimone della RSI. Lui può mostrarsi pubblicamente: Munther Amira è noto alle autorità israeliane, da ben prima dell’offensiva su Gaza. Da oltre vent’anni è il presidente e l’anima del centro giovanile “Aida”, nell’omonimo campo profughi di Betlemme. La sede ospita attività culturali e sportive proprio sotto la gigantesca “chiave del ritorno” dei profughi del 1948, sorretta da un arco accanto all’ingresso del quartiere. Lo incontro qui. Nel suo ufficio, mostra sullo schermo di un computer il video della sua scarcerazione lo scorso 3 marzo. L’avevano arrestato il 18 dicembre. L’indomani, avevo incontrato la moglie Sama, nel salotto di casa a Betlemme. Avevo documentato il suo racconto della violenta incursione dei soldati israeliani nel cuore della notte, le percosse del marito davanti ai suoi figli, il video - sul cellulare - della figlia che grida dalla finestra “Papà, ti voglio bene”. “Risposi a mia figlia di non preoccuparsi”, dice ora Munther Amira. “È stato il mio errore: i soldati israeliani hanno reagito subito picchiandomi brutalmente e buttandomi su un veicolo militare. Per salire, mi calpestavano”.

Adesso siedo con lui in quello stesso salotto, dove campeggiano alcuni ritratti di detenuti politici palestinesi. Munther Amira si prodiga da anni per la loro scarcerazione. Compreso quella di Marwan Barghouti, il più popolare leader della resistenza armata palestinese (accusato di omicidio da Israele), in prigione da 24 anni. “In passato siamo stati in carcere insieme. L’ultima volta mi chiese di spiegare i principi della non-violenza agli altri detenuti palestinesi”.

Munther Amira spiega la sua scelta di non far parte della resistenza palestinese armata

RSI Info 23.06.2024, 17:21

“Contrario alla resistenza armata”

Lei ha mai partecipato alla lotta armata contro l’occupazione israeliana o ha fatto parte di Hamas o di altri gruppi armati? È la prima domanda della RSI. “No, non voglio far parte e non faccio parte della resistenza armata. Il che non significa che i palestinesi non abbiano il diritto di usarla. Io e le persone con cui collaboro sosteniamo una resistenza non-violenta. Non vogliamo perdere altre vite. È già troppo così. Troppo sangue versato. Vogliamo vivere in pace. E lottiamo per questo”. Un attivismo che è anche denuncia: dal 7 ottobre, afferma, “non solo oltre 37.000 morti nella Striscia di Gaza ma anche più di 500 in Cisgiordania. Sono detenzioni arbitrarie e in condizioni durissime, ci stanno uccidendo lentamente”. L’accusa contro Munther Amira – lo scorso dicembre – si riferiva a un suo invito su Facebook a una manifestazione, considerata da Israele un incitamento alla violenza. “Ero stato in carcere altre volte in passato. Ma non avevo mai subito un trattamento così degradante”.

Munther Amira descrive gli abusi e le molestie subite in carcere da parte dei soldati israeliani

RSI Info 23.06.2024, 17:22

“Ho capito cosa sono le molestie sessuali”

Un incubo che inizia quella notte sulla jeep militare, sotto le finestre di casa e accanto al centro giovanile che dirige. All’arrivo in una struttura militare israeliana appena fuori Betlemme, la prima di una lunga serie di abusi e umiliazioni. “Sette o forse più soldati più mi hanno ordinato di spogliarmi davanti a loro… dicevano in ebraico: “Comincia la festa”.. mi hanno ordinato di togliermi anche le mutande. Mi sono rifiutato… sono stato picchiato…buttato a terra… e me le hanno tolte”. La sensazione di non resistere e cedere. “Ma in questi momenti bisogna essere forti”, aggiunge l’attivista. “Mi intimavano di alzare le braccia, fare flessioni..sù e giù.. il momento peggiore è stato quando due soldati mi hanno toccato.. non conoscevo il significato di molestia sessuale ..non so se lo sia stato.. so solo che è stato un momento difficile.. qualcuno ti tocca e tu non vuoi… se ti picchiassero, forse sarebbe più facile”.

Un trattamento ignominioso vietato dalle convenzioni internazionali e dalle leggi israeliane. Ma che secondo questo testimone si è ripetuto anche al momento dell’ingresso del carcere di Ofer, in Israele: “Dopo averti tolto tutti i vestiti e averti fatto spogliare, hanno un bastone abbastanza lungo... lo appoggiano sul tuo corpo... qui e qui....Ma quando arrivano in mezzo alle tue gambe... iniziano a tormentarti. Questa è l’idea: ti umiliano, vogliono farti cedere già nelle prime ore in cui sei lì”.

FOTO 4 - alternativa Munther Amira mostra le immagini della sua scarcerazione dalla prigione israeliana lo scorso marzo (Foto - RSI).jpg

Munther Amira mostra su un computer le immagini della sua scarcerazione dalla prigione israeliana lo scorso marzo

  • RSI

“Prigionieri costretti a quattro zampe per mangiare”

Munther Amira descrive alla RSI insulti, percosse, privazioni, minacce con i cani portati dalle guardie carcerarie all’interno di una cella condivisa con 12 detenuti, in molti casi malati e quasi tutti senza alcuna incriminazione né accuse formali. Nella sua testimonianza, l’attivista palestinese spiega le modalità di distribuzione del cibo: qualche ciotola di riso, “due cucchiai di marmellata per tredici persone e due pezzi di pane a testa”, una quantità a suo dire insufficiente (“basta chiedere a qualsiasi detenuto… chiunque ha perso non meno di 15 chili di peso). “Mettevano il cibo per circa due file di celle… in quattro angoli di un cortile. Per prenderlo, dovevamo camminare come gatti, a carponi… questo accadeva!”. Persino nei trasferimenti da un carcere all’altro non si poteva camminare ma c’era l’obbligo di andare a 4 zampe: “Se alzavi la testa, ti colpivano. Io ho ancora i segni, ogni volta che mi guardavo intorno mi picchiavano con un bastone”. C’è poi il dettaglio di un ulteriore episodio che evoca inevitabilmente la vergogna statunitense di Abu Graib in Iraq oltre vent’anni fa: “Avevamo fatto rumore per richiamare l’attenzione delle guardie carcerarie dopo il suicidio in cella di un mio compagno di prigionia”, racconta alla RSI. “Ci hanno punito, obbligandoci a impilarci l’uno sull’altro. Sotto di me c’era un detenuto anziano, per evitarlo mi son messo di lato. Una guardia mi ha visto e mi ha pestato duramente”. Munther Amira parla lentamente, prende fiato e tempo per trovare parole adeguate a descrivere quelle giornate di sofferenza e oltraggi continui. Ha un tono molto calmo ma fermo: “Tortura, vendetta…chiamatela come volete, ma questo è il vero volto dell’occupazione”.

Migliaia di detenuti senza incriminazione

Le carceri in Israele sono gestite dall’Israeli Prison Service (IPS) – un’agenzia del ministero dell’interno guidato da Ben Gvir, uno dei due ministri ultranazionalisti di estrema destra del governo Netanyahu. L’IPS non ha risposto alle domande circostanziate della RSI sul trattamento dei detenuti, sulle loro condizioni e sugli abusi denunciati da Munther Amira.

Nelle prigioni dello Stato ebraico sono rinchiusi oltre 9.000 palestinesi, un numero aumentato fortemente dopo l’avvio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Lo status legale di oltre 3.400 di questi prigionieri non è definito: sono sottoposti al regime della cosiddetta “detenzione amministrativa” da parte di Israele: contro di loro non ci sono né incriminazioni né accuse formali e nemmeno procedimenti giudiziari.

FOTO 5 - L'incontro con Munther Amira a Betlemme, davanti alla sede del centro giovanile di cui è presidente (Foto RSI).jpg

L'incontro con Munther Amira a Betlemme, davanti alla sede del centro giovanile di cui è presidente

  • RSi

“Non possiamo rimanere in silenzio”

Molti ex-detenuti hanno paura di parlare dopo il rilascio. Temono ripercussioni o di sprofondare di nuovo nell’abisso delle carceri israeliane. Munther Amira non sa per quale motivo sia stato rilasciato. Gli hanno soltanto indicato di non rilasciare dichiarazioni. “Invece pochi minuti dopo la mia scarcerazione, all’esterno del carcere non ho potuto far altro che denunciare le durissime condizioni di chi è rimasto dentro”. Il suo cruccio sono i detenuti “amministrativi”: “Non sono accusati di nulla, non hanno assistenza giudiziaria, non possono vedere un avvocato: devono essere rilasciati”.

Non perde il suo piglio da attivista. Ma questa volta è lui stesso un testimone che ha documentato e subìto gli abusi nelle carceri israeliane sul proprio corpo da diabetico, a cui sono state negate medicine specifiche. “Combattiamo per essere liberi” dice in chiusura della conversazione con la RSI. “Non è logico pagare un prezzo così alto e alla fine rimanere in silenzio”.

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