La storia di Steve Blank, ormai 70enne d’origine newyorkese trapiantato in California dagli Anni Settanta, si confonde con la leggenda. Vuoi per il numero di start-up di successo lanciate una dopo l’altra, vuoi per aver saputo accompagnare negli anni, come professore alla Stanford University, la crescita della Silicon Valley. Lo chiamano il “Padrino” della valle del silicio e se fosse necessario un altro aneddoto per rendere più fulgida la sua aura basti ricordare che è l’unico capo avuto che Elon Musk ricosca come tale, come scrive nella sua biografia il fondatore di Tesla o SpaceX. “Io in realtà non mi ricordavo di lui, racconta divertito Blank, così ho chiesto a chi dirigeva insieme a me quella società di videogiochi e mi ha detto “come non ti ricordi?!? Era quel giovane stagista che amavi riprendere ad alta voce!” (n.d.r.: ride di gusto)”.
La copertina di Wired dedicata alla società di Blank nel novembre 1994
Oggi Blank si divide tra l’abitazione a Palo Alto e il suo ranch sul Pacifico. Lo raggiungo qui per discutere per il Telegiornale dei tagli tra i Big Tech e il fallimento della Silicon Valley Bank e lui mi spiazza ribadendo il credo siliconvallico: “Credo che quello che è avvenuto possa essere salutare per la Silicon Valley”. Idee e investitori non mancano, continua, stiamo vivendo, sottolinea, un momento di “disruption”: vi è spazio per nuove idee. Idee e opportunità sono le due parole che, come un mantra, ama ripetere. “È diverso essere imprenditori qui, ma più ci si allontana dalla Valley e più si fa fatica a capirlo. Chi fa impresa qui non è il classico uomo d’affari, ma è più simile alla figura dell’artista”. E anche chi mette i soldi – i venture capitalists - ha un approccio diverso: “Investono come tutti gli investitori, spiega Blank, ma sono pronti a fallire per il 90 per cento, perché sanno che il restante 10 per cento può rendere molto di più del capitale perso. Non è come mettere i soldi in banca…”.
Steve Blank
Parliamo di come la pandemia abbia cambiato il modo di lavorare, di come
molte delle aziende visitate siano mezze vuote perché il personale lavora da casa. E lui ammette un punto di non ritorno: “La pandemia ha cambiato il modo in cui le persone vedono la natura del lavoro. Ma credo anche, continua il docente di Stanford, che pensare che tutti lavoreremo da remoto per ogni lavoro sia semplicemente sbagliato. Ma, certamente, se fossi un proprietario di immobili commerciali con tanti uffici… beh, credo sarei preoccupato… gli uffici di cui avremo bisogno non saranno mai gli stessi di prima del Covid”.
Ma quando parla di “disruption” Steve Blank intende una novità in particolare: “Non sono sicuro che chi non segue la tecnologia si renda conto che terremoto causerà l’Intelligenza Artificiale con i Chat GPT. È come quando IBM annunciò il PC. È una trasformazione radicale in ogni settore: automatizzerà migliaia di processi che oggi sono normalmente svolti dagli esseri umani”. Dobbiamo aspettarci un’ondata di tagli, incalzo, posti di lavoro qualificati soppressi? “Il Personal Computer ha trasformato quasi ogni singolo lavoro delle imprese, risponde Steve, ma non abbiamo licenziato il 90 % della popolazione”.
Il SOL computer, uno dei primi “home computer”
Uno
studio dell’Università della Pennsylvania attesta che l’80 per cento dei lavori vedrà modificata la propria quotidianità dal 10 al 20 per cento. Un quinto degli impieghi sarà rivoluzionato, con cambiamenti radicali di oltre il 50 per cento delle attuali funzioni. Ma ancora una volta Blank non si scompone: “Con la rivoluzione del PC sono cambiati i compiti al lavoro, alleggeriti da quello che i computer fanno meglio, ma anche le capacità degli esseri umani sono migliorate. Il computer ha eliminato migliaia di impieghi, ma ne ha creati altrettanti, anzi molti di più. Penso che ora come esseri umani ci stiamo solo “riqualificando”…lo spero!”.
Steve Blank durante l'intervista
Il suo ufficio è pieno di cimeli. Vi sono le copertine delle riviste che lo celebrano, ritagli di giornale, vecchie tastiere dei primi processori, fotografie del passato. Azzardo una domanda sui social media e lui confessa che “i social media hanno avuto lo stesso effetto di chi grida “al fuoco!” in un teatro affollato. Facebook aveva promesso ci avrebbe unito, in realtà abbiamo visto che l’esperimento è fallito e ci ha solo diviso di più”. È l’unico momento dell’intervista in cui l’ottimismo che
ho sempre respirato venendo in quest’angolo di California pare mostrare qualche crepa. Ma il suo telefonino suona e, prima di essere congedato con grande gentilezza, capisco che il tempo a mia disposizione è finito.