Si chiude con questo contributo il viaggio della nostra inviata Paola Nurnberg in Ucraina, dove aleggia lo spettro del conflitto con la Russia
“Il mio nome è Dmytro, non Dimitri. Dimitri è in russo”. L’interprete mi corregge subito quando pronuncio male il suo nome. Non l’ho fatto apposta ovviamente, ma capirò presto che la dicotomia ucraino-russo mi accompagnerà per tutta la trasferta, in qualunque momento. Quindi ogni parola, ogni espressione usata, viene soppesata, e anche le domande che facciamo noi giornalisti possono essere fraintese. Non solo, dalla stampa internazionale spesso ci si aspetta – anzi, quasi si pretende - che essa si faccia portavoce di un messaggio univoco, di essere partigiana. Ma si può capire. L’uscita dall’Unione Sovietica e l’indipendenza guadagnata per gli ucraini sono state una conquista che oggi, e soprattutto dopo la rivoluzione arancione del 2004 e la guerra scoppiata nel 2014, va difesa a qualunque costo. Si sentono, e di fatto sono, costantemente minacciati da Mosca perché la sofferenza per l’espansionismo russo è storica, risale a un passato lontano, a quando Stalin, per sottometterli, affamava questo “granaio dell’URSS”. Ma la ferita - tuttora aperta - sanguina come allora.
Più recentemente, nel Donbass, nella regione di Luhansk, la rabbia verso la Russia si è trasferita sugli ucraini che appoggiano i separatisti che guardano a Mosca. Molti militari della regione sono stati costretti quindi a lavorare con loro e per loro contro il popolo ucraino, che ha sviluppato così un forte senso patriottico e un solido nazionalismo. Esperienze terribili come mi racconta un ex agente segreto ucraino costretto dai separatisti filorussi a passare informazioni riservate nella regione di Donetsk, prima che riuscisse a fuggire portando con sé migliaia di profili di separatisti, che gli ucraini chiamano “terroristi”. Per raggiungere Yuri, rimasto anonimo per motivi di sicurezza, entriamo nel Donbass dal check point di Slovjansk, dove i soldati ucraini controllano però solo l'identità dell'autista. Dopo un'occhiata veloce ai giornalisti, siamo in tre, e all'interprete, ci fanno passare. La destinazione è Lyman, dove, in un locale moderno ci aspetta Yuri.
Donbass, il check point di Slovjansk
Ci può dire chi è lei e perché vuole raccontare la sua storia?
Voglio raccontare la mia storia perché me l’ha chiesto un mio amico conosciuto quando lui era detenuto. Vuole sapere che cosa facevo? Facevo la guerra, ma io sono stato fortunato, perché la mia storia è una storia lunga. Sono un cittadino ucraino, sono stato un ufficiale dei servizi segreti, sono un patriota del mio paese e del mio “Oblast”, la regione di Luhansk. Questo significa che avrei avuto la possibilità di andarmene e spostarmi a Kiev e avere magari un buon lavoro, ma ho dei principi e delle priorità nella mia vita, così ho continuato a vivere qui, nella località in cui ci troviamo.
Ma perché si è unito alle forze filorusse?
Io non mi sono unito, sono loro che mi hanno preso, mi hanno assorbito. Questo vuole dire che è stato fatto contro la mia volontà, non ho avuto scelta. Per esempio, se io le dicessi che se lei non viene con me le sparo e la uccido, che cosa farebbe? Non avrebbe scelta.... Ma nonostante questo, avevo capito di avere forse una piccolissima chance di andare via, magari provando a corrompere qualcuno, però sono stato tradito. A questo punto ho dovuto accettare di lavorare con loro, per provare a fare qualcosa, come riuscire a trovare delle buone informazioni.
Yuri ha quindi collaborato coi separatisti filorussi, ma lo ha fatto fingendo, perché così avrebbe raccolto informazioni che avrebbe potuto in seguito passare alle forze ucraine. Il suo sguardo è triste e lontano. Sembra un vinto. Dice che ancora oggi soffre di disturbi postraumatici e che, per quello che ha passato, i capelli gli sono diventati tutti bianchi di colpo. Gli domando se abbia dovuto indossare anche la loro uniforme.
No, non avevo un’uniforme. Ma mi hanno dato dei vestiti. Quando stavo lì capivo che ero solo, nessuno mi avrebbe riscattato e liberato, quindi l’unica cosa che mi restava da fare era rischiare la vita per ottenere informazioni da questi separatisti e dai russi e rischiando, come detto, la mia vita, ho trasmesso queste informazioni all’Ucraina.
La crisi ucraina
Telegiornale 29.01.2022, 21:00
Che cosa faceva esattamente?
Raccoglievo informazioni presso la mia gente, informazioni che mi portavano e che loro mi chiedevano quanto fossero attendibili. Quando vedevo che queste informazioni potevano causare dei danni ai russi, a prescindere dalla loro veridicità, le confermavo e dicevo: "sì, certo è così!"
Lì non avevo la possibilità di spostarmi, ero come dentro una stanza, una cella. Ero libero di muovermi dentro questa prigione, ma non potevo uscirne. Questa era la mia situazione, potevo muovermi nel territorio che mi assegnavano, ma non potevo andarmene. Il mio lavoro praticamente era vagliare le informazioni che ricevevano i russi e queste informazioni si basavano su dati concreti come, ad esempio, nomi e cognomi di tutta l’armata dei separatisti con gradi e ruoli, era quindi una cosa molto seria, serviva a capire chi facesse parte dei gruppi dei terroristi. C’erano anche dei numeri di telefono, e questo significa che si potevano mettere sotto controllo le comunicazioni, questa è una cosa molto importante.
L’Intervista si interrompe sul più bello. L’interprete è convinto che io non appoggi abbastanza la causa ucraina, perché anche solo fare un apprezzamento sui libri di Dostoevskji e Tolstoj può essere un problema. La diffidenza è tanta e anche la traduzione con Yuri viene ostacolata. Ma riesco a ottenere da lui un’ultima confessione. “Ho avuto bisogno di liberarmi di questo peso – dice alla fine Yuri – perché tenerlo dentro non era più possibile e perché non voglio passare per traditore della mia patria. Ma mi ha fatto male anche vedere la morale della mia gente, la gente di Luhansk, che si è fatta raggirare dai russi. Avere 25 mila dei nostri uomini sul campo – conclude - non è servito a niente”.
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