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Israele-USA: perché se tutto cambia niente cambia?

Mentre a Gaza la guerra non si ferma (e i civili continuano a morire), Netanyahu è in visita a Washington. Come risponderà la politica americana? L’analisi del professor Alberto Bitonti

  • Oggi, 05:47
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Universitari contro la guerra a Gaza (Massachusetts Institute of Technology (MIT), 6 maggio 2024)

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Di: Massimiliano Angeli

“Tenderei a sottolineare la differenza tra i rapporti tra due Stati e i rapporti tra due leader. I rapporti tra i due Stati, tra Israele e Stati Uniti, continueranno a essere rapporti solidi che andranno avanti, al di là di chi sarà il prossimo presidente USA dopo Joe Biden. I rapporti tra i leader sicuramente cambieranno, in virtù delle maggioranze politiche che emergeranno da una parte e dall’altra. Bisogna sempre essere attenti a fare questa distinzione”. Così ai microfoni della RSI il professor Alberto Bitonti, docente di comunicazione politica all’USI, commentando la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu a Washington, visita che avviene questa settimana in un momento di tensione fra due Paesi storicamente alleati (anche per via del modo in cui il governo Netanyahu sta conducendo la guerra a Gaza, dove vengono uccisi anche civili) e in un frangente nel quale la politica statunitense è sconvolta, tra l’altro, per l’attentato del 13 luglio contro il candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump e per la decisione del 21 luglio del presidente Joe Biden di rinunciare alla candidatura (sostenendo nella corsa la vicepresidente Kamala Harris).

Netanyahu vola a Washington

Telegiornale 22.07.2024, 20:00

“D’altra parte - prosegue il professor Bitonti - non si può nascondere il lato politico e la parte di strategia politica da parte di quegli stessi leader. Quindi in questo caso abbiamo il presidente democratico Joe Biden e dall’altra il primo ministro di un governo di estrema destra, quello di Netanyahu in Israele, che hanno interessi effettivamente anche distanti; siamo arrivati in un momento di rapporti molto freddi tra i due governi, proprio in virtù delle scelte del governo israeliano e della riluttanza americana a fiancheggiare, a sostenere in maniera assoluta o senza vincoli le scelte dell’alleato in Medio Oriente. Su questo è importante fare questa distinzione, anche perché è un bias tipico - anche di molte analisi o nell’opinione pubblica - il far coincidere la “faccia politica” di un governo con lo stesso governo di quel Paese o addirittura con gli abitanti di quel Paese. Dal punto di vista di concreti risultati, Netanyahu vuole sicuramente una ulteriore legittimazione e tenderà a rafforzare la storica amicizia tra Stati Uniti e Israele, anche andando oltre quelle diffidenze, quella freddezza dovuta alle scelte politiche degli ultimi mesi. Dall’altra parte si dovrà vedere quello che Biden chiederà a Netanyahu, cioè cercare di raggiungere un piano di pace che possa stabilizzare la situazione in Medio Oriente. Cosa che forse Netanyahu non ha tanto interesse a perseguire in questo momento”.

Cosa potrebbe accadere a Washington questa settimana?

“Dal punto di vista “minimi risultati”, la visita servirà a rafforzare il legame tra USA e Israele nell’ottica degli Stati, quindi verrà corroborata l’alleanza che comunque neanche Biden ha mai messo in discussione, nonostante le scelte politiche di Netanyahu. Dall’altra Biden cercherà di convincere Netanyahu ad accettare o ad approvare entro le prossime settimane un piano di pace. Ma dal punto di vista politico temo che Netanyahu non abbia interesse a farlo, anche perché spera in una vittoria di Trump, essendo quest’ultimo un candidato, invece, che ha storicamente dato più mano libera a Israele, sostenendo Israele “senza se e senza ma”. Cosa che a Netanyahu, ovviamente, farebbe comodo nella prosecuzione della sua azione politica”.

… parliamo della “variabile” Trump…

“Trump è un personaggio imprevedibile. Ci ha abituato, negli anni, a una linea che può cambiare da un momento all’altro. Quindi se da una parte mi aspetto una continuità nella tradizionale politica estera degli Stati Uniti (anche nel caso di una presidenza Trump), è indubbio che dal punto di vista di Netanyahu avere Trump alla Casa Bianca faciliterebbe la propria azione politica, in maniera un po’ più indiscriminata, proprio perché Trump, parlando al suo elettorato, vuole affermare un modello che Netanyahu incarna molto bene, quello di un leader che combatte il terrorismo. La retorica battagliera di Netanyahu trova sicuramente una sponda più in Trump che in Biden”.

Su quali leve, invece, potrebbero agire Joe Biden o Kamal Harris per spingere Netanyahu a un cessate il fuoco a Gaza?

“Anche in questo caso, spesso ci si ferma alle dichiarazioni dei presidenti in cui si riafferma questa amicizia, ma più che le affermazioni e le dichiarazioni, contano azioni concrete sia nel campo delle Nazioni Unite (a livello di appoggiare risoluzioni anche internazionali che favoriscano questo processo di pace) sia attraverso l’uso di dinamiche più legate alla forza. Per esempio, minacciare di far venire meno l’assistenza militare a Israele potrebbe essere un’extrema ratio da parte del governo americano per forzare la mano al governo di Netanyahu. Non sono sicuro che si arriverà effettivamente a questo, però, finché questo non accade, Netanyahu ha dato prova di infischiarsene di tutti gli inviti alla pace… nel momento in cui non viene toccata l’alleanza strategica o la fornitura di armi a Israele, Netanyahu sembra non essere davvero interessato a perseguire questo piano di pace, un piano che andrebbe contro la sopravvivenza del suo stesso Governo”.

Biden vs Netanyahu?

Telegiornale 10.04.2024, 12:30

Cosa frena Biden (o frenerà Harris) dallo smettere di fornire armi a Israele?

“Da una parte la continuità della politica estera, appunto. Questo al di là di chi sia il presidente in carica negli Stati Uniti; sia che si abbia un presidente repubblicano o democratico, gli Stati Uniti hanno comunque mantenuto un rapporto speciale con Israele nei decenni. Quindi questo è un piano che continuerà a esserci. Dall’altra l’usare la “mano pesante” o “l’asso nella manica” del far venire meno l’accordo militare sarebbe un passo che un po’ mina questa continuità e dall’altra potrebbe anche venir meno un asset, uno strumento che gli americani stessi hanno a disposizione per cercare di condizionare le scelte del governo israeliano. Nel momento in cui dovessero chiudere i rubinetti o far cessare il proprio supporto militare a quel punto Netanyahu sarebbe ancora più sciolto di come possa apparire oggi. Quindi il governo americano vuole tenere comunque questa leva nelle proprie mani, cercando di condizionare la politica di Netanyahu. Per il momento non ci sta tanto riuscendo, però questa è la grande sfida”.

C’è poi il tema dei gruppi armati sostenuti dall’Iran…

“In questo caso è già più semplice, perché quando si tratta di attacchi verso Israele è facile che i Paesi democratici compongano un fronte comune contro questi attacchi. La parte più controversa e più problematica è l’azione di Israele stesso, quindi ciò che l’esercito israeliano sta facendo a Gaza in questo momento. È lì il vero nodo. La domanda che dobbiamo porci tutti è: che tipo di pace, cioè quali sono le condizioni per un’effettiva pace in Medio Oriente? Ovviamente è una questione spinosissima che va avanti da decenni, ma finché non si arriva a un piano politico (quindi non militare, non si parla di vittorie militari, ma di un piano politico) che effettivamente punti alla costituzione di un ordine statale anche in quell’area, è difficile che si possa arrivare a raggiungere qualche successo, qualche stabilità”.

Le proteste per la guerra a Gaza (e quelle annunciate per la visita di Netanyahu) che peso hanno, dal punto di vista politico, negli USA?

“In realtà forse anche l’entità delle proteste è stata esagerata negli scorsi mesi. Ovviamente la base democratica è molto insofferente rispetto alle scelte del governo di Netanyahu, soprattutto per quello che sta avvenendo a Gaza, ma credo che non si debba neppure esagerare l’entità e l’influenza che queste proteste hanno effettivamente sulle scelte poi di strategia di politica estera che, sia Biden sia Kamala Harris potranno compiere nei prossimi mesi. Questo è tutto da vedere…Diciamo che è un terreno scivoloso per chiunque, sia per Biden come presidente sia per Harris come candidata. È un terreno scivoloso perché, da una parte si rischia di scontentare una componente dell’elettorato democratico che invece punta a cambiare il tono delle relazioni con Israele (più che con Israele con il governo di Netanyahu). Dall’altra parte, però, si rischia di minare anche un rapporto tradizionalmente consolidato, quello appunto tra Stati Uniti e Israele. È un terreno molto scivoloso per Biden, così come lo sarà per la Harris come candidata alla presidenza”.

Nuove grandi proteste contro Netanyahu

Telegiornale 23.06.2024, 20:00

Cosa cambierà dopo che il procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto mandati d’arresto per Netanyahu e tre leader di Hamas?

“Il problema è che gli Stati Uniti non sono parte della Corte penale internazionale che, lo ricordiamo, è una organizzazione internazionale ad adesione volontaria. Il diritto internazionale non è un vero e proprio diritto, è un diritto che è tale fintanto che i membri della comunità internazionale (quindi gli Stati sovrani) sono disposti a sanzionare. Dal punto di vista politico è chiaramente un fatto epocale ed è stato importantissimo, c’è stato un segnale molto forte di condanna delle azioni del governo israeliano, così come delle azioni di Hamas o di altri gruppi che hanno attaccato Israele. Però è difficile che questo si possa tradurre poi in decisioni cogenti da parte del Governo americano”.

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