L’Iran sembra aver avuto un ruolo importante nel sostegno all’offensiva di Hamas. La dirigenza dell’organizzazione palestinese lo ha dichiarato sabato. “Teheran ci ha aiutato”, ha detto il suo leader Mohammed Deif. E inoltre questo massiccio attacco rappresenta un messaggio alle nazioni che dialogano con Israele. Quali sono allora gli obiettivi dell’Iran? Lo abbiamo chiesto a Eleonora Ardemagni, analista dell’Istituto di studi di politica internazionale di Milano (ISPI), esperta di Medio Oriente.
Quali sono gli obiettivi dell’Iran?
“Non sappiamo ancora per certo il ruolo che l’Iran può aver avuto nell’organizzazione operativa di questo attacco di Hamas a Israele, che è stato un attacco estremamente sofisticato. Quello che è certo è che Hamas è un attore armato che viene finanziato e armato, addestrato, dai guardiani della rivoluzione islamica, quindi dall’Iran. Questo inserisce un elemento, una dinamica regionale, in questo conflitto e quindi incrementa anche le possibilità che la guerra, (perché di guerra, purtroppo, dobbiamo parlare tra Hamas e Israele), possa avere altri fronti, per esempio con gli Hezbollah libanesi, forse anche con le milizie sciite siriane sostenute da Teheran”.
Cita Hezbollah, il movimento filo iraniano-libanese, che a sua volta ha colpito proprio nelle scorse ore il territorio israeliano, con l’esercito israeliano che ha subito risposto. Quanto allora è reale questa prospettiva di un allargamento del conflitto?
“Penso che dipenderà da ciò che osserveremo nelle prossime ore. Di certo si sta verificando lo scenario peggiore per Israele, quello della percezione di un accerchiamento, di un accerchiamento di attori che fanno capo all’Iran, quindi al rivale storico di Israele, a colui che non ha mai mancato in questi ultimi anni di minacciare l’esistenza stessa di Israele”.
L’offensiva di Hamas è una sorta di messaggio alle nazioni che dialogano con Israele, l’Arabia Saudita in primo luogo.
“Per l’Arabia Saudita questa guerra è davvero un passaggio molto delicato, perché mette in difficoltà la sua strategia regionale e innanzitutto mette in difficoltà il processo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra sauditi e Israele, che si stava avviando a una conclusione e a una ufficializzazione. E Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita, ha legato questo riconoscimento di Israele a una più ampia ridefinizione dei rapporti con gli Stati Uniti, includendo anche garanzie di sicurezza da parte americana per il regno saudita e cooperazione nello sviluppo del programma nucleare civile. Poi l’Arabia Saudita ha bisogno di stabilità regionale per centrare gli obiettivi della diversificazione economica oltre il petrolio (quelli di Vision 2030). E poi c’è la relazione, appunto, con l’Iran. Le relazioni diplomatiche sono riprese nel marzo 2023, le due ambasciate sono state riaperte. Ma certo questa guerra e soprattutto se dovessero, altri attori filo iraniani, entrare in questo conflitto, metterà davvero in difficoltà l’accordo fra sauditi e iraniani”.
Quale ruolo possono giocare allora le altre potenze regionali, proprio per evitare questo allargamento del conflitto? Pensiamo all’Egitto, oltre che all’Arabia Saudita.
“Ieri l’Egitto, con Giordania e Arabia Saudita, hanno annunciato un coordinamento per arrivare a una de-escalation tra Hamas e Israele, ma in questo caso vedo davvero difficile il ruolo dell’Arabia Saudita nei panni del mediatore, a differenza di altri in scenari regionali internazionali. Questo perché i palestinesi hanno capito ormai che i sauditi danno priorità, in questa fase storica, al riconoscimento di Israele e quindi quella proposta di pace araba, che era stata realizzata e promossa proprio dall’Arabia Saudita nel 2002 (quella dei due Stati), adesso è di fatto scalzata dalla necessità, per le ragioni che dicevo prima, la volontà di Riad di riconoscere Israele nel quadro di un più ampio riassetto regionale”.
Siamo di fronte, per chiudere, a un conflitto che potrebbe durare a lungo?
“Purtroppo le premesse ci sono. Ovviamente nessuno ha la sfera di cristallo. C’è da dire che questo conflitto che, per tanti anni, soprattutto dopo le rivolte arabe del 2011, abbiamo considerato ormai marginale nello scenario mediorientale, proprio perché le grandi potenze della regione, (a cominciare dall’Arabia Saudita), l’hanno declassato per occuparsi di altri fronti e di altri obiettivi, soprattutto economici. Ecco questo conflitto rischia oggi, riaccendendosi, di dettare invece l’agenda, proprio nella ridefinizione degli assetti in Medio Oriente.
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