Quando la sicurezza spulciando la lista degli invitati all’insediamento del nuovo Presidente controllò il nome Mary Fitzpatrick pensò a un errore. “Trentatré anni, condannata per omicidio, penitenziario di Fulton, Atlanta, Georgia”. Bastò un veloce consulto con i nuovi inquilini della Casa Bianca per chiarire l’anomalia. Da quando il suo ex datore di lavoro aveva lasciato la carica di Governatore nel 1975, Mary era dovuta tornare in carcere, ma pur non avendone ancora il diritto quel viaggio a Washington poteva farlo: i Carter avrebbero fatto da garanti per la sua libertà vigilata.
Mary ormai, “era parte integrante della famiglia”, come scrisse Jimmy Carter nel 2005 nel libro di memorie “Sharing Good Times” a lei dedicato. Dal 1970 era la bambinaia della figlia più piccola Amy. Tanto, che dopo i festeggiamenti a cui la “nanny” partecipò con un abito di velluto cucito dai compagni di carcere, la neo-First Lady Rosalynn le chiese se volesse raggiungerli a Washington dove, tra l’incredulità di molti, Mary rimase fino alla fine del mandato presidenziale prima di stabilirsi anche lei a Plains, il piccolo villaggio di 600 abitanti in Georgia, dove nel 1981 i Carter i tornarono a vivere.
Mary Price e la figlia del Presidente Carter, Amy, nel 1977
Rosalynn Carter e Mary si erano conosciute nel dicembre del 1970. Vista la buona condotta alla giovane detenuta venne data la possibilità di un lavoro fuori dal penitenziario. Il colloquio di assunzione con la moglie 43enne dell’allora governatore della Georgia fu decisivo. Rosalynn fu immediatamente persuasa della sua innocenza. Mary divenne la bambinaia della quartogenita Amy, che allora aveva tre anni a cui tutte le sere cantava “Swing Low, Sweet Chariot” prima di addormentarsi. Alla Casa Bianca la nanny afroamericana abitava al terzo piano, si occupava della figlia e dei nipoti del presidente così come del guardaroba della signora Carter. Il salario era di 6’004 dollari l’anno. Tecnicamente, Mary era ancora fuori dal carcere con la condizionale.
Nel 1982 il caso giudiziario di Mary – che nel frattempo aveva ripreso il nome da nubile, Prince – venne riesaminato e la sua innocenza riconosciuta. Non era stata lei a sparare al compagno della cugina nell’aprile del 1970. Prima del processo che avevo portato alla sua condanna, aveva incontrato l’avvocato d’ufficio un paio di volte - per dieci, quindici minuti - e si era lasciata convincere a dichiararsi colpevole confidando in una pena lieve. Il verdetto invece di colposo, fu di omicidio volontario; la pena per l’allora 24enne il carcere a vita. Mary fu fortunata, scrisse in seguito Jimmy Carter, che la vittima non fosse bianca, perché le sarebbe costata la condanna a morte.
Ho conosciuto la vicenda umana di Mary Prince leggendo i numerosi ritratti di Rosalynn Carter, l’ex First Lady morta domenica 19 novembre all’età di 96 anni. La sua storia dice molto della sensibilità e della umanità di colei che i giornalisti soprannominarono la “magnolia d’acciaio” durante la presidenza del marito Jimmy. Ma la vita della “bambinaia dei Carter” è uno straordinario esempio di giustizia riparativa in un Paese, gli Stati Uniti, dove ancora oggi un afroamericano su quattro ha un familiare condannato e dove il 37 per cento della popolazione carceraria è nera (condannata, quattro volte su cinque, per reati di piccola entità). Oggi negli USA dietro le sbarre vi sono quasi tre milioni di persone, nel 1970 – quando Mary iniziò il suo percorso riabilitativo – erano 196’441.
Notiziario del 19.11.2023
RSI Info 19.11.2023, 22:10