Il ritorno di un conflitto in Europa ha riportato al centro della scena il ruolo degli esperti e dei reporter di guerra, che raccontano i fatti, ma anche le storie di chi paga il prezzo più alto delle ostilità.
Diversi storici avevano previsto che le tensioni tra Russia e Ucraina sarebbero arrivate a un punto di rottura, ma in molti non credevano che la guerra sarebbe effettivamente scoppiata. "La colpa non è soltanto dei giornalisti - spiega a Il Faro della RSI Gianluca Grossi, reporter di guerra, fotografo e scrittore - In Europa in particolare, abbiamo confinato la guerra dentro le parentesi e le paratie stagne della storia, credendo che la guerra appartenesse soltanto al passato, che mai più si sarebbe potuta trasformare in un fatto del presente e della nostra vita. Evidentemente ci sbagliavamo".
Secondo il reporter, si è davvero iniziato a temere che si sarebbe scatenata una guerra in Ucraina, solo quando sono arrivate le prime fotografie dai satelliti, che mostravano migliaia di mezzi militari russi, ammassati al confine. "In realtà quella guerra era in corso da tempo - continua - ma era una guerra limitata ad una parte dell’Ucraina e ancora prima dell’inizio degli scontri c’erano state avvisaglie e i segnali che prima o poi sarebbe esplosa".
“Fratelli nel sonno”
Questa fotografia è stata scattata da Grossi nel 2014, nel Donbass. Raffigura due soldati nemici, allungati sul pianale di un camion, senza vita. "L'avevo intitolata "Fratelli nel sonno", perché credo che pur essendo nemici, sono fratelli di chi li avevi uccisi - illustra Grossi - Questa è la guerra, un terrificante scatenamento di ciò che siamo capaci. La guerra non è una polverina che ci hanno buttato sopra gli extraterrestri, non è nemmeno il prodotto della follia della mente di un presidente o della mente degli esseri umani, la guerra è ciò di cui siamo capaci".
Essere un reporter di guerra
"Per essere un reporter di guerra bisogna invecchiare, perché quando si è giovani queste cose non si capiscono. Io quando facevo molti anni fa questo lavoro non capivo ancora esattamente queste cose, ero consapevole della necessità di dover fare questo, ma soltanto dopo, con il passare degli anni, ho cominciato anche a pensare, e oggi ho scelto di raccontare la guerra ragionando sulle cose che ho imparato guardandola - racconta Grossi - È un lavoro che si può fare soltanto se dentro c’è una sorta di urgenza, una sorte di inquietudine, che ti porta ad esporti al grado massimo alla vita e alla realtà. Devi essere disposto ad essere vulnerabile, ma vulnerabile anche dal punto di vista del pensiero e delle emozioni. Devi essere disposto ad accettare che anche anni dopo una scena che hai visto ti svegli di notte".
Un compito importante è anche quello di raccontare la storia di chi fugge e cerca di salvarsi. "Raccontare una guerra significa non tanto parlare alla nostra vita, ovvero portare alla nostra vita un’informazione, raccontare una guerra significa parlare della nostra vita. Tutto quanto sta accadendo ora ai profughi ucraini in fuga dalla guerra, sollecita in noi la consapevolezza che ciò che accade a queste persone è una circostanza, la fuga, ma queste persone manifestano ai nostri occhi una condizione che anche noi condividiamo, perché tutti noi abbiamo in un momento, piuttosto che in un altro, considerato la possibilità, l’indispensabilità di fuggire da qualcosa che ci minacciava", conclude.