La versione più semplice, e semplicistica, è che Taiwan ha detto un no definitivo alla Cina e rischia di avvicinarsi a un conflitto. La realtà è però che non sarà il risultato delle elezioni presidenziali e legislative di ieri, sabato, a decidere se il futuro sarà di guerra o di pace, nonostante la retorica della campagna elettorale. O almeno, non soltanto.
L’esito emerso dalle urne, con la vittoria del tradizionalmente filo indipendentista Lai Ching-te del Partito progressista democratico (DPP), è frutto di una serie di fattori interni e contingenti che quantomeno nella mente dei taiwanesi poco avevano a che fare con la Cina continentale. Il primo elemento importante da tenere in mente è che Lai ha profondamente smussato le sue posizioni. Se in passato si era dichiarato un “lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan” ora garantisce che manterrà lo status quo. Vale a dire niente unificazione (o riunificazione come la chiamano a Pechino) ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale come “Taiwan”, in superamento dell’indipendenza de facto come Repubblica di Cina, retaggio della guerra civile tra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti di Mao Zedong e ugualmente non riconosciuta (ma fin qui tollerata) dalla Repubblica Popolare Cinese.
Porsi in perfetta linea con la posizione centrista della presidente uscente Tsai Ing-wen ha consentito a Lai di allontanare qualche timore tra l’elettorato taiwanese, nonostante il leader eletto continui a essere ritenuto più “imprevedibile”. Importante allora il ruolo giocato dalla futura vicepresidente, Hsiao Bi-khim. Si tratta dell’ex rappresentante di Taipei negli Stati Uniti ed è considerata la vera erede di Tsai. Non solo, anche Washington anela a un’autorità taiwanese stabile e soprattutto “prevedibile” (leggasi niente sorprese sull’indipendenza) e il fatto che Hsiao sia un volto ben conosciuto dall’amministrazione Biden viene considerata una garanzia.
L’altro elemento decisivo sulla vittoria di Lai è stata la frammentazione dell’opposizione. Tradizionalmente, alle presidenziali taiwanesi i contendenti sono due: il candidato del DPP e quello del Kuomintang (KMT, il più dialogante con Pechino). Dopo la vittoria schiacciante del KMT alle elezioni locali del novembre 2022, costruito su temi prettamente interni e locali, l’ennesima sfida a due avrebbe potuto favorire l’opposizione. Ma stavolta c’è stato un “terzo incomodo” molto serio, il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je. Ex chirurgo ed ex sindaco di Taipei, si è proposto come una “terza via pragmatica e anti ideologica”.
Piuttosto che dei rapporti con la Cina continentale, su cui ha comunque rivendicato la necessità di riaprire il dialogo, durante la campagna ha parlato di temi molto concreti come il prezzo delle case, i salari minimi, l’occupazione e il dilemma energetico. Un approccio che ha convinto soprattutto i più giovani. Il suo 26% alle presidenziali è risultato decisivo per impedire all’ex poliziotto Hou Yu-ih, il candidato del KMT giunto secondo col 33%, di insidiare più da vicino Lai. La possibile candidatura unitaria tra Hou e Ko, annunciata a novembre e poi naufragata a 24 ore dalla presentazione delle liste, sarebbe stata ampiamente favorita.
Il DPP ha infatti perso il 17% delle preferenze rispetto alle presidenziali del 2020, vale a dire oltre due milioni e mezzo di voti in meno. Una tendenza ancora più netta alle legislative, dove per la prima volta dopo otto anni il partito perde la maggioranza. Nella legislatura che prende il via il 1° febbraio, sarà il KMT il primo partito con 52 seggi, comunque meno dei 57 necessari per avere la maggioranza assoluta. La presidenza di Lai sarà dunque azzoppata sin dall’inizio e il DPP dovrà trattare con Ko (vero ago della bilancia degli equilibri parlamentari) sulle riforme e sul budget di difesa.
La vittoria di Lai resta storica, visto che è la prima volta che un partito ottiene tre mandati consecutivi, ma esaminato più a fondo il voto dei taiwanesi appare pragmatico e non radicale. Una tendenza che pare aver recepito anche la Cina, che nella sua prima reazione al voto ha sì ribadito che la “riunificazione è inevitabile”, ma anche sottolineato che “stavolta il DPP non rappresenta l’opinione pubblica maggioritaria dell’isola”. Una prospettiva che potrebbe portare Xi Jinping a pazientare ancora, sperando di fare leva sulle divisioni interne per avvicinare una “riunificazione pacifica” che, guardando l’orgoglio con cui i taiwanesi si recavano ieri ai seggi per votare il candidato preferito, resterà comunque difficile da ottenere.

Taiwan sceglie l'indipendenza
Telegiornale 13.01.2024, 20:00