Ad Haret Hreik, il volto di Hassan Nasrallah e quello dei suoi alleati sono ovunque. Da soli, a due e talvolta tutti insieme, il segretario generale di Hezbollah, il presidente siriano Assad, lo yemenita Abdul Malik al Houthi e gli altri leader sciiti viventi indicano che si è nella Dahieh, la periferia a sud di Beirut. Ed è un altro mondo. Oggi, giorno di preghiere e discorsi, non sembra neppure più Libano perché è come essere in Iran, effigie dell’ayatollah Khamenei inclusa anche se meno diffusa rispetto a quella degli altri eroi. Così vengono chiamati sugli striscioni.
Per le strade è il caos, ma dopo il primo cancello, la folla viene riordinata, nessuno spinge o esce dal percorso segnato dai blocchi di cemento. Tutto dritto, dove son diretti in gruppo gli scout di Hezbollah e i membri del partito che al collo hanno il foulard giallo, vanno gli uomini, compreso Hisham, che in Libano mi aiuta con gli spostamenti.
La porta principale non è per le donne, che vanno a destra, verso un’entrata secondaria, ma solo dopo aver attraversato una tendina e i controlli della polizia di Hezbollah. Tutte, ma proprio tutte le donne, agenti e non, sono nere dalla testa ai piedi, con il tipico lungo hijab della Repubblica islamica. Un altro mondo, appunto, che nulla ha a che vedere con la splendida diversità della capitale.
Pensare a Marjane Satrapi, la fumettista di Persepolis, mi strappa un sorriso, che perderò poco dopo, all’entrata del complesso al-Shuhdadaa, luogo di culto in cui vengono proiettati i discorsi di Nasrallah. Arrivo al metal detector, com’è normale che sia, e ad altri controlli che però stavolta non supero con l’impressione che neppure loro sappiano esattamente cosa fare di me.
Le donne sono tutte vestite di nero, dalla testa ai piedi
La tessera internazionale dei giornalisti non basta. Un’autorizzazione dell’ufficio stampa del partito neanche. Il registratore radio, più piccolo di un telefonino, è sospetto e va controllato, così almeno dicono mentre vengo scortata fuori dal perimetro, oltre la tendina – dove vengo consegnata a due ragazzi, nerovestiti anche loro e con le radioline – e oltre i cancelli, un paio di isolati più in là, fino a un cortile che sembra solo un posteggio e con alcuni uomini che rispondono “nz” a tutte le mie pochissime domande.
“Amen”, penso. Anzi, “Halas, tornerò a casa senza aver assistito al discorso”. Scrivo a Hisham. Lui è entrato. Attendo e dopo 50 minuti circa, e poteva andare molto peggio, mi scortano nuovamente al Shuhdadaa, in cui entro dall’entrata principale con la proibizione di scattare delle foto, ma la libertà di registrare i suoni e intervistare chiunque. Hassan Nasrallah, che ha invitato tutti a pregare per sua madre che è appena deceduta, ha finito di ringraziare una folla di oltre 1’500 persone che inneggiano al loro leader.
È impressionante.
Percorro tutta la zona riservata agli uomini, incredibilmente trovo Hisham, che ha una sedia lungo il corridoio, e vengo invitata a sedermi sotto le telecamere dei giornalisti di Hezbollah, giusto dietro i dignitari, in posizione ideale per guardare lo schermo. Qualcuno mi allunga una bottiglietta d’acqua. Sono l’unica occidentale e mi viene da ridere e tanto, ma neppure stavolta troppo a lungo.
Nasrallah parla per un’altra buona mezz’ora. La folla reagisce, annuendo, solo quando dichiara che non bisogna mescolare politica e religione. “Se non è questa la strada verso lo sciismo politico all’iraniana, non so più cosa credere”, penso. C’è il silenzio totale, invece, quando si sofferma, e lo fa lungamente, sui corpi martoriati dei palestinesi di Rafah o quando promette di distruggere Israele.
Alla fine del discorso, tanti si fermano a riordinare le sedie e, donne e uomini, sono disposti a dire cosa rappresenta per loro Hassan Nasrallah, dipinto con passione come l’unico detentore della verità.
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Telegiornale 28.05.2024, 12:30