Annullate le cinque pene capitali presentate in prima istanza, un tribunale saudita ha formulato quello che è definito il verdetto finale del processo per l'assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, perpetrato nell'ottobre del 2018 nel consolato dell'Arabia Saudita a Istanbul. Otto degli undici imputati sono stati condannati a pene comprese fra i 7 e i 20 anni di detenzione. Questo dopo che in maggio i figli di Khashoggi - che aveva 59 anni e i cui resti non sono mai stati trovati - avevano perdonato gli uccisori del padre, salvando così loro la vita.
La sentenza non fa luce sui mandanti. In un primo tempo Riad aveva negato ogni coinvolgimento, per poi sostenere che a ucciderlo erano stati agenti che avevano operato senza indicazioni dall'alto. Washington e Ankara avevano invece additato il principe ereditario Mohammed bin Salman e la sua cerchia. In Turchia è iniziato in luglio un processo in contumacia contro 20 sauditi, di cui due personaggi vicini a bin Salman, l'ex consigliere Saud al Qahtani e l'ex numero due dei servizi segreti Ahmed al Assiri, dai quali sarebbe partito l'ordine di uccidere. In patria il primo è stato indagato ma non rinviato a giudizio per mancanza di prove, il secondo invece processato ma assolto per il medesimo motivo.
La fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, ha definito "una farsa" il verdetto, che per la relatrice speciale dell'ONU Agnès Callamard "non ha alcuna legittimità giuridica o morale". Il processo, ha spiegato, non è stato "né equo, né giusto, né trasparente".