La strada che attraversa la città di Agdam costeggia interminabili file di costruzioni distrutte che si estendono su entrambi i lati fino all’orizzonte. La maggior parte sono scoperchiate, piante ed erbacce si arrampicano sulle pareti rimaste in piedi. I vicoli sono abbandonati e deserti se non per due sminatori che, armati di metal detector, scandagliano il terreno alla ricerca di ordigni inesplosi. Poco più avanti, di fianco ad una bandiera dell’Azerbaigian piantata nel terreno, sventola una grande bandiera turca. “Questa è la Hiroshima del Caucaso” dice il funzionario azerbaigiano che ci accompagna.
Agdam è una delle tante città del Nagorno Karabakh ad essere state distrutte e spopolate nell’arco degli ultimi trent’anni. Abitata storicamente sia da armeni che da azerbaigiani e riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaigian, questa regione è stata sconvolta dai conflitti a partire dalla fine dell’Unione Sovietica, quando i due popoli iniziarono a combattersi. La prima guerra venne vinta dagli armeni che fondarono in loco la Repubblica dell’Artsakh, uno Stato indipendente (seppur non riconosciuto internazionalmente) legato a doppio filo alla vicina Armenia. Oltre mezzo milione di azerbaigiani vennero espulsi, le loro città e villaggi distrutti o lasciati andare in rovina. Negli ultimi anni, però, l’Azerbaigian ha lanciato ripetuti vittoriosi attacchi, l’ultimo dei quali, avvenuto esattamente un anno fa, ha costretto l’Artsakh alla capitolazione e gli armeni alla fuga di massa verso l’Armenia, abbandonando per sempre le proprie città, villaggi, chiese, monasteri e cimiteri. Oggi il Nagorno Karabakh è una scacchiera in cui gli insediamenti abbandonati dagli armeni si sovrappongono a quelli degli azerbaigiani fuggiti trent’anni fa. Questi ultimi stanno venendo oggi ricostruiti e ripopolati.
Sminatori al lavoro
Tonnellate di mine sepolte nel terreno
Di fianco alle rovine di Agdam si alzano decine di gru che stanno ricostruendo la città ex novo. Prima della guerra essa era abitata da 40’000 azerbaigiani, tutti fuggiti in direzione di Baku. Oggi il governo azerbaigiano sta stanziando miliardi per la ricostruzione e per favorire il trasferimento in loco dei propri cittadini, a partire da coloro che fuggirono trent’anni fa. Ad Agdam le ricostruzioni sono nel vivo, il ripopolamento invece non è ancora iniziato. A rallentarlo sono, tra le altre cose, le tonnellate di mine sepolte nel terreno dai soldati armeni in fuga che hanno reso le campagne circostanti un enorme campo minato. Lungo gli sterminati prati si vedono decine di artificieri, spesso accompagnati da cani lupo, alla ricerca degli ordigni da fare brillare. Dal 2020 ad oggi sono morte a causa delle mine 69 persone, sia militari che civili.
Nella città di Fizuli, 60 chilometri più avanti, sono arrivate recentemente 3’000 persone che vivono in enormi palazzoni appena edificati. La maggior parte sono famiglie che da qui vennero sfollate negli Anni Novanta e che ora vi fanno ritorno, ricevendo dallo Stato una nuova casa, un sussidio mensile per tre anni, assistenza medica e sociale. Possono stabilirsi qui anche gli azerbaigiani non originari del Karabakh, che devono però acquistare autonomamente i possedimenti. Il governo incentiva il ripopolamento attraverso sgravi fiscali per le aziende che vengono esentate dalle tasse per dieci anni e ricevono crediti vantaggiosi dalle istituzioni. Finora si sono spostate nel Karabakh circa 8’000 persone e i numeri sono destinati a crescere rapidamente. Viaggiando per la regione la maggior parte delle città che si incontrano sono degli enormi cantieri a cielo aperto.
Città e villaggi fantasma
Restano invece completamente abbandonate e fatiscenti le città e i villaggi da cui gli armeni sono fuggiti. Spostandosi per la regione si passa attraverso decine di essi, fatti di file di case ad uno o due piani lasciate in fretta e furia un anno fa dagli abitanti. Le porte sono aperte, sulle pareti e sui tetti crescono piante rampicanti, l’erba è alta e incolta nei giardini. Tutt’intorno i campi e i frutteti sono lasciati andare in malora.
Su un grosso cartello azzurro reca la scritta “Khankendi”, il nome azerbaigiano della più grande città della regione, che gli armeni chiamano Stepanakert. Fino ad un anno fa vivevano qui quasi 100’000 armeni, oggi gli unici movimenti sono quelli dei poliziotti azerbaigiani che stazionano ai posti di blocco e dei cani randagi che si aggirano tra i vicoli. Per chilometri e chilometri non si vedono che case, chiese e massicci palazzoni in calcestruzzo completamente vuoti.
Un anno fa l'esodo dal Nagorno-Karabakh
Telegiornale 13.09.2024, 20:00