In Catalogna lo si conosce popolarmente come el monotema. È l’argomento di discussione onnipresente nella regione a statuto autonomo da almeno tre mesi a questa parte. Impossibile non parlarne, utopico provare a passare qualche ora senza farci i conti, pia illusione non sentirne almeno parlare.
Il processo verso l’indipendenza accaparra tutte le attenzioni dallo scorso 1º ottobre, quando si è capito che da verbale, la sfida tra il governo secessionista di Carles Puigdemont e quello conservatore di Mariano Rajoy, si faceva assai reale.
Da allora ci sono state dichiarazioni di indipendenza, manifestazioni a favore e contro la permanenza in Spagna, il commissariamento della regione, la fuga di aziende e di parte dell’ex governo, l’arresto di altri ex politici.
Parlare del procés (processo, in catalano) è diventato sempre più impulsivo e allo stesso tempo complicato. La Catalogna si è divisa in due blocchi, ogni giorno un po’ più sordi, più distanti l’uno dall’altro. C’è stata una sconnessione, sì, ma interna alla Catalogna.
“È il problema di questi movimenti – spiega la psicologa Neri Daurella- che finiscono per trasformare l’altro non solo in un avversario, ma in un nemico, poi quasi in un animale di un’altra specie”.
Un animale con il quale non si parla, perché le sue opinioni non sono difendibili, nemmeno rispettabili. Solo che quel nemico è spesso un collega, un compagno di sport o un membro della propria famiglia.
E allora parte della società (il 40% dicono alcuni sondaggi) opta per non citarlo più il monotema, per non parlare più di politica. Piomba in un silenzio teso, pronto a scoppiare di nuovo il 21 dicembre alle 20, all’uscita degli exit poll.
Davide Mattei