Domenica gli italiani tornano alle urne per rinnovare le Camere. Sulle prospettive del voto, dal probabile successo della coalizione di centro-destra, alla pronosticata affermazione del M5S e gli affanni dei democratici, abbiamo raccolto l'opinione del commentatore di Repubblica Massimo Giannini.
Quale scenario ci troveremo davanti, secondo lei, la sera del 4 marzo?
Questa è la domanda delle 100 pistole che si fanno, credo, 60 milioni di italiani. Mai come questa volta le elezioni assomigliano a una roulette russa, per una serie di ragioni. La prima è data da una legge elettorale scellerata che rende molto complicata la costruzione di maggioranze e che ci riporta indietro ai tempi della Prima Repubblica.
Legge che introduce un sistema sostanzialmente proporzionale e una piccola quota di collegi uninominali, senza però il voto disgiunto che avrebbe consentito molto più facilmente la creazione di coalizioni. Invece con queste norme le coalizioni che ci sono, a partire da quella di centro-destra, sono più o meno finte e quella di centro-sinistra non è neanche mai nata.
A questo aggiungiamo il M5S che fino all’ultimo dà prova di voler evitare qualunque contaminazione con le altre forze politiche. È l’immagine di un paese che si sta consegnando a una prevedibile ingovernabilità.
E quindi come se ne esce?
È molto complicato immaginarlo, la totalità della responsabilità è nelle mani del presidente della Repubblica, cui compete l’onere di trovare una soluzione. Difficilmente, come detto, si arriverà a una maggioranza autosufficiente perché la coalizione di centro-destra, pur essendo numericamente la più forte, non raggiungerà il 40%.
Il M5S, pur essendo il primo partito per consensi, a sua volta non arriverà a quella percentuale e infine la coalizione di centro-sinistra, che in realtà non è una vera coalizione, è incentrata su un Pd in palese affanno.
Credo quindi che le ipotesi possibili siano alla fine due. La prima è che vada avanti il governo uscente di Gentiloni, sia pure con una maggioranza ormai non più effettiva, ma quantomeno ipotizzabile sulla carta, per il disbrigo degli affari correnti. E nel frattempo i partiti si mettono d’accordo per fare una riforma della legge elettorale e tornare così a votare al più presto, entro due o tre mesi.
Ritiene che siano più probabili nuove elezioni o la formazione di un governo di larghe intese in cui ci stiano un po’ tutti?
L’altra ipotesi è proprio questa. E cioè che si possa arrivare a una formula di esecutivo – qualcuno come Massimo D’Alema la chiama “governo del presidente”, qualcun altro la chiama “larghissime intese”, qualcun altro ancora la definisce “governo di unità nazionale” - con una maggioranza molto più ampia. Si tratta però di capire quanto ampia.
Certo è che per ragioni numeriche non può più essere la coalizione limitata a Forza Italia e Pd, che da soli non avrebbero neanche i numeri per governare. Ma una coalizione con perimetro più esteso che tenga dentro realisticamente, oltre il Pd e Forza Italia, anche Liberi e Uguali, Emma Bonino e i cespugli minori di centro-destra e centro-sinistra.
E anche realisticamente, sia pure in una posizione non integrata di vera e propria maggioranza, il Movimento 5 Stelle. Perché se gli ultimi sondaggi sono veri, non si può pensare di creare un nuovo governo tenendo fuori una forza politica che rappresenta più di un terzo degli elettori italiani. E quindi il M5s sarebbe in un qualche modo in partita.
In che modo il Movimento 5 Stelle potrà inserirsi in questo quadro?
Io non credo che possa entrare a tutti gli effetti nella maggioranza con propri ministri o altro. L’ipotesi che circola è quella di poterli coinvolgere nel perimetro istituzionale affidando loro per esempio la presidenza della Camera e, magari, ottenendo così non la fiducia al nuovo governo ma, quanto meno, la non sfiducia, che era una formula che funzionò ai tempi della Democrazia Cristiana e del PCI per un breve periodo negli anni ‘70.
Ecco, questa potrebbe essere una soluzione che io considero più credibile rispetto a quella di una prosecuzione del Governo Gentiloni fino al varo di una nuova legge elettorale. Perché nel nuovo parlamento gli equilibri saranno completamente diversi da quelli che abbiamo appena conosciuto e soprattutto perché si tratta di capire che fine farà il Pd.
Perché il Partito democratico, che fino ad ora è stato il perno del sistema politico, nel nuovo scenario post 4 marzo potrebbe prendere poco più del 20% dei voti. A quel punto si troverebbe ad essere solo uno dei tanti attori sulla scena ma non certo il cardine del sistema politico-istituzionale.
Ma che ne sarà di Renzi, visto che si prospetta il fallimento del suo disegno originario di Partito della nazione egemonico?
Renzi, a dispetto di quello che dice (“siamo in partita”, “siamo convinti di poter vincere”, “saremo sicuramente il primo partito per consensi e per seggi in parlamento”), è ben consapevole che questa prospettiva potrebbe fallire clamorosamente. Tanto è vero che ha compilato le liste elettorali in vista del voto del 4 marzo a sua immagine e somiglianza, azzerando qualunque forza interna che non sia organica al Renzismo.
I pochi esponenti della minoranza li ha tenuti in lista ma come singoli. E gli stessi ministri, da Delrio a Orlando, a Franceschini, non hanno più una loro squadra di candidati che li accompagna e la loro forza d’urto è molto ridotta. Il segretario dem ragiona già in una logica di possibile sconfitta, nella convinzione di costruire comunque una forte minoranza di blocco in Senato, dove lui si è candidato insieme ai suoi fedelissimi (che sono soprattutto i rappresentanti che lui ha voluto mettere nella commissione d’inchiesta sulle banche) del PDR, il Partito di Renzi.
Ma c’è un errore in tutto questo perché la sindrome del bunker, che ricorda Hitler asserragliato nei sotterranei della Cancelleria del Reich, non porta mai da nessuna parte. È l’immagine di uno sconfitto che non può reggere più di tanto in quelle condizioni.
Per quali motivi secondo lei è destinato a non tenere il suo disegno?
Perché i fedelissimi sono tali fintanto che vinci o comunque non perdi. Ma quando poi incappi in una possibile disfatta capita spessissimo in politica - se non quasi sempre - che i fedelissimi perdono la fede. Quindi anche questo manipolo di personaggi che Renzi ha portato con sé e con i quali intende impostare questa presunta resistenza, se il Pd andasse veramente male come sembra, potrebbe abbandonarlo. E l’ex premier potrebbe essere costretto a gettare la spugna e a rassegnarsi all’idea che la sua stagione da segretario per adesso è finita.
In questo contesto Renzi ha dalla sua un solo vantaggio, che è l’anagrafe. A 41 anni ha tutto il tempo per uscire di scena e rientrarci, perché la politica italiana in questo ci ha abituati a ben altri ritorni: pensiamo solo a Berlusconi che di anni ne ha 81.
Certo è che in questa fase politica il segretario dem è ancora una volta quello che ha tutto da perdere. Queste elezioni si stanno trasformando, impropriamente o propriamente, in un altro referendum su di lui come era già successo con il referendum costituzionale che ha perduto il 4 dicembre dell’anno scorso.
Il centro-destra viene dato dagli ultimi sondaggi non lontano dalla fatidica soglia del 40% che potrebbe garantirgli una maggioranza. Ma Forza Italia non ha più i numeri di una volta e gli equilibri, a differenza del passato, sono spostati a destra (Lega, FdI).
Naturalmente il centro-destra che potrebbe vincere queste elezioni è ben diverso da quello che le vinse nel 1994, nel 2001 e nel 2008. In quelle tre occasioni la maggioranza assoluta di quella coalizione era saldamente nelle mani di Forza Italia, che già all’epoca non si poteva certo considerare una destra moderata.
A dispetto delle formule che Berlusconi talvolta evocava, era una destra che aveva molto poco a che fare con la cultura delle destre moderate appartenenti alla famiglia del Partito popolare europeo. Berlusconi è stato il primo grande populista assurto prepotentemente sulla scena, non solo italiana, sul finire degli anni ’90. Quindi il fatto che oggi lo si rappresenti come un moderato che garantisce la coalizione di centro-destra nell’Ue e assicura una fedeltà all’ideale europeo, fa quantomeno sorridere.
Però nei fatti è un po’ così perché nel frattempo si è illuminata la stella di Salvini che ha in testa una Lega completamente diversa da quella di Bossi, che era l’uomo della secessione e della Padania. Salvini invece è un sovranista “lepenista”. Incarna l’idea di una destra nazionale che recupera le dimensioni della patria (“Dio patria e famiglia”) e ha in mano il Vangelo e il rosario. Si tratta di una destra completamente diversa.
In questo senso sono ipotizzabili derive antieuropee ed estremistiche nell’Italia del dopo-voto?
Certo, se stiamo alle cose che Salvini sostiene dal punto di vista della gestione del fenomeno dei migranti, se stiamo a ciò che Salvini dice - e continua a ripetere anche in queste ore - a proposito del nostro rapporto con l’Europa e della permanenza dell’Italia nella moneta unica, saremo confrontati con una destra che preoccupa molto di più di quanto non preoccupasse quella dei tempi del Berlusconismo da combattimento.
Però io credo che tutto sommato abbiamo un vantaggio: nonostante tutto l’Italia, con tutte le sue resistenze, incongruenze e incoerenze, è ormai saldamente incardinata dentro il sistema politico-istituzionale europeo che attraverso l’incidenza effettiva del vincolo esterno (che riguarda soprattutto i conti pubblici), alla fine tiene sotto controllo tutte queste pulsioni e queste forze disgregatrici - in particolare Lega e M5S – cui si è assistito nel corso della campagna elettorale.
Quindi alla fine se il centro-destra vincesse, i potenziali danni che secondo il mio parere questa coalizione potrebbe fare, sarebbero forse minori di quelli che oggi possiamo temere e immaginare.
Leonardo Spagnoli