“Continuiamo a chiedere alla Cina di condividere dati e fornirne l’accesso in modo da comprendere le origini del Covid-19. È un imperativo morale e scientifico, perché senza trasparenza e cooperazione tra i Paesi il mondo non sarà in grado di prepararsi alle future epidemie e pandemie”. A cinque anni esatti dall’inizio dell’incubo coronavirus, l’Organizzazione Mondiale della Sanità recapita questo messaggio a Pechino. Per farlo non ha scelto una data a caso. È infatti il 31 dicembre 2019 quando la Cina informa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di una nuova polmonite virale a Wuhan. Undici giorni più tardi, la Cina conferma la prima morte per coronavirus. Il 23 gennaio inizia il primo lockdown della stessa Wuhan. Poco dopo il virus viene scoperto in tutto il mondo, causando devastanti conseguenze sia dal punto di vista sanitario, sia dal punto di vista economico.
Sono passati cinque anni ma, secondo l’OMS, il governo cinese non ha mai aperto del tutto le sue porte per aiutare le indagini sulle origini della pandemia. È proprio nel lasso di tempo tra la comunicazione all’OMS del 31 dicembre, quella sul genoma del virus alla comunità internazionale (del 10 gennaio) e la successiva conferma della trasmissione del virus tra esseri umani del 21 gennaio che, secondo l’OMS, potrebbero esserci informazioni importanti ancora sconosciute sull’origine della pandemia. In questi anni, delle missioni dell’OMS si sono recate due volte in Cina per chiarire l’origine del Covid-19, senza successo e con aperture giudicate non totali. Gli esperti sostengono che l’ipotesi più plausibile è quella di un salto del virus da altre specie animali all’uomo. Ma non è mai stato confermato dove e come si sia compiuto questo salto, e non è mai stata del tutto esclusa la teoria della possibile fuga da un laboratorio.
Il governo cinese ha smentito qualsiasi accusa. “Cinque anni fa la Cina ha immediatamente condiviso le informazioni sull’epidemia e la sequenza dei geni virali con l’OMS e la comunità internazionale”, ha dichiarato in conferenza stampa Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri, che anzi rilancia: “Non abbiamo trattenuto nulla e abbiamo dato un enorme contributo alla lotta alla pandemia”.
In Cina, il Covid-19 ha causato almeno 122’400 morti. Questo secondo i dati ufficiali delle autorità, anche se c’è chi sostiene che i numeri possano essere più alti. A lungo, il Partito Comunista ha mantenuto una durissima politica “Zero Covid”, predisposta dallo stesso presidente Xi Jinping, che mirava a debellare il virus anche nelle sue varianti meno letali. Solo dopo il disastroso lockdown di Shanghai nella primavera del 2022 e le proteste in diverse città del novembre 2022, il governo ha allentato le misure. Da allora l’economia cinese non è però mai ripartita del tutto.
Difficile che l’appello dell’OMS venga accolto, anche perché secondo la narrativa del governo cinese è proprio grazie al suo modello di contenimento e prevenzione che è stata in larga parte vinta la “guerra contro il demone” del coronavirus.
Esemplificativo anche quanto accaduto a Zhang Yongzhen, virologo che ha raggiunto la fama in Cina e nel mondo per aver svelato i dati sul genoma del virus che causa il Covid-19. Era il 10 gennaio 2020. Ma in quel momento le autorità cinesi avevano vietato la pubblicazione non controllata di informazioni sulla malattia ed erano impegnate a mantenere il controllo sulla comunicazione. Da lì in poi Zhang è diventato una sorta di eroe a livello internazionale, ma in Cina ha incontrato diverse difficoltà. La scorsa primavera, si è barricato per qualche giorno di fronte al suo laboratorio chiuso dal Centro Clinico per la Salute Pubblica di Shanghai, che non aveva mai regolarizzato il suo contratto. Dopo un sollevamento popolare sui social, Zhang è tornato temporaneamente al lavoro.
Ad aggiungere complessità al tema, c’è anche il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti ha a lungo ritenuto il Covid-19 come il motivo principale della sua sconfitta alle elezioni del 2020. Non solo. Trump ha accusato più volte Pechino sulla diffusione del Covid, da lui chiamato a ripetizione “virus cinese”. La politicizzazione dell’argomento rende ancora più complicato immaginare nuove concessioni da parte della Cina, che anzi pare voglia definitivamente mettersi alle spalle un periodo i cui effetti (quantomeno a livello economico e sociale) non sono ancora svaniti del tutto.