Gli Stati baltici sono in una posizione molto delicata. Fanno parte della NATO – negli anni ’90, l’Europa aveva promesso di non estendersi ad Est e questa adesione è una delle principali cause del degrado delle relazioni con Mosca – sono ai margini di Schengen, dell’Unione Europea, confinano con Russia e Bielorussia.
L’inquietudine è forte, sia per ragioni legate alla cronaca – la guerra in Ucraina – che alla storia più o meno recente, come l’invasione del 1939-40, il periodo sovietico e la breve occupazione del 1991, conseguenza delle dichiarazioni d’indipendenza che hanno portato alla fine dell’Unione Sovietica, ma non delle fratture sociali.
Aspetti che tentiamo di restituire con una serie di ritratti di persone comuni. Ognuna con un’idea diversa.
"Io i russi li odio tutti"
“Questa qui non è la guerra di Putin, siete voi nel resto dell’Europa a voler credere che lo sia, ma in realtà questa è la guerra di tutti i russi. È l’errore di tutta una nazione”. Siamo nel bel mezzo di un’intervista con Gintas, che a un certo punto sbotta.
Lo abbiamo incontrato a casa sua, in un villaggio a due passi da Kalinigrad, la zona – si dice – più militarizzata del mondo, un’enclave nel cuore dell’Europa dove Vladimir Putin ha parte della sua flotta baltica, tanti soldati e missili Iskander – difficilmente intercettabili dai sistemi di difesa – pronti all’uso.
“L’enclave non mi fa sentir bene, ma cosa posso farci? Ho passato metà della mia vita nell’Unione sovietica. Sono degli imperialisti. Tutta la Russia è imperialista”, dice di fronte a una famiglia di sette ucraini.
Gintas e la famiglia ucraina
Sono arrivati da un paio di settimane ed è già nato un bellissimo rapporto. Parliamo in inglese e loro non capiscono, ma il tono dice tanto, hanno visi un po’ preoccupati, ma non per molto. Gintas è un brav’uomo, un cuore grande, sa che lo stiamo provocando, che il nostro intento è proprio quello di tirargli fuori i pensieri più autentici.
La guerra in Ucraina ha riaperto vecchie ferite, fatto riemergere tanti ricordi e riacceso molte paure. Abbiamo uno scambio a tratti vigoroso, che finisce di fronte a un caffè e un album di vecchie fotografie. Parliamo del 1991, quando all’indomani dell’Atto di restaurazione – la Lituania è stata la prima repubblica a dichiarare l’indipendenza dall’Unione Sovietica – a Vilnius entrarono i carri armati nel tentativo di riprendere il controllo degli Stati Baltici.
“Potrebbe ricapitare”, dice Gintas. “Il mio problema è che si fanno ancora affari con la Russia, soprattutto la Svizzera. Io non vi voglio male, ma pensateci. Quando la Russia diventa economicamente forte, poi attacca e ammazza un sacco di gente e se gli ucraini perdono, i prossimi siamo noi. Io amo tutti, ma i russi io li conosco e li odio”.
Sogni sì, paura no
Il centro di registrazione di Vilnius
Al centro di registrazione di Vilnius, di bus ne arrivano ancora e con regolarità, ma le iniziali code infinite sono sparite, così come i logoranti tempi d’attesa necessari per regolarizzare i rifugiati ucraini, che ora, da chissà dove e senza grandi bagagli, giungono a gruppetti con i visi segnati dalla stanchezza. Un breve controllo dei documenti all’entrata, qualche spiegazione da parte di due agenti e s’incamminano lungo un corridoio che porta in una sala ampia, non troppo affollata, ma soffocante.
All’interno fa caldissimo e il sovrapporsi delle voci stordisce. In mezzo, un’area dove i più piccoli giocano e si sfogano, tutt’attorno le tappe di un circuito che termina in una zona con lunghi tavoli dove attendere, alla fine dell’iter, la risposta per una nuova casa.
Ci sono per lo più donne con bambini o figli adolescenti, anzi, figlie, perché se di uomini ne vediamo tre, non di più, neanche di ragazzi ce ne sono molti. Hanno lo sguardo perso o fissano il pavimento.
Proviamo ad avvicinarci a uno di loro, che si alza in piedi e, senza neanche guardarci, ma con molta dolcezza dice “scusate, no, non me la sento”. Riproviamo con un altro ragazzo. Ha una felpa nera con un cappuccio che gli copre metà del volto, sta guardando il suo tablet. Dice che non parla inglese, ma prima ancora di finire è sua madre che ci chiede – sempre molto educatamente – di lasciarli tranquilli.
Valeria con il suo uccellino
Ai margini della sala, vediamo una ragazza con la mano dentro a una gabbia blu. Valeria, che ha 24 anni e ne dimostra molti meno, ci guarda, sorride, butta via piatti e bicchieri di carta e ci invita a sederci con lei. “Sono arrivata qui da sola e lui non potevo lasciarlo in Ucraina, è come un gatto” e ride, mentre guarda l’uccellino che in effetti abbassa il capo per farsi grattare la nuca.
“Ormai non ho più paura di niente, abitavo a Donetsk, non avete idea di cosa io abbia visto. Da lì, ho dovuto scappare e sono andata a Mariupol per un periodo e poi sono di nuovo fuggita, a Odessa, ma i russi sono arrivati anche lì. Cosa devo fare? Quel nazista di Putin mi perseguita. Putin è come Hitler”. Le chiediamo se ha ancora dei sogni. Risponde “avere dei figli, trovare un lavoro, vivere in pace, voglio solo cose normali”.
Accetta di parlare con noi anche Georgij. Se ne sta seduto con il suo fratellino che gli somiglia come una goccia d’acqua e non sta fermo un secondo. “Lui durante il viaggio era abbastanza tranquillo, non ho dovuto inventarmi storie per calmarlo”. Georgij ha solo 16 anni e parla della paura delle bombe come una cosa a cui ci si abitua in 48 ore. A Vilnius, ci è arrivato con entrambi i genitori e dice di non capire la frustrazione di alcuni suoi coetanei che vorrebbero tornare e partecipare, in qualche modo, alla difesa del loro Paese.
Questa è anche la volontà dell’ultimo ragazzo con cui parliamo, che si allontana dalla madre per parlare con noi qualche minuto. “Non so molto dei miei amici. So che alcuni sono morti. Non ho avuto paura del viaggio, solo quando ci hanno quasi colpiti, e non sono felice di essere qui. Vorrei difendere il mio Paese, ma non ho ancora 18 anni. Mi sento male, non posso fare nulla, mentre mio padre è rimasto a Kiev. L’idea di perderlo è l’unica cosa che mi spaventa. Il mio sogno è fare studi strategici, militari. La gente sta morendo, al mondo voglio dire solo questo”.
Un'operazione criminale su vasta scala
“Questo qui è un viaggio di sola andata, resterò finché ci sarà bisogno di me”, ci dice Gedus, mentre guarda due uomini che caricano due ambulanze su un rimorchio, “quindi non so quando tornerò, non so neanche se la mia storia sia davvero interessante”. È tanto che si è messo a disposizione e ora “finalmente”, dice lui, sta per partire per l’Ucraina dove, oltre alle ambulanze, porterà materiale medico e tutta la sua esperienza, perché il paramedico, oltre ad aver lavorato con l’esercito, in guerra ci è già stato: ha compiuto due missioni, la prima in Afghanistan, nel 2003, e la seconda in Iraq, due anni dopo.
Gedus non ce la faceva più a stare – come dice lui – sul divano a guardare la Tv mentre l’Ucraina viene devastata e la gente muore. Gli chiediamo se non ha paura e come si prepara. “Quando sei in quella situazione, di spazio per panico e timori non ne hai. Hai tutti i sensi amplificati, devi pensare a mangiare, a dormire e a fare il tuo lavoro. Chiaramente mi sono preparato, conosco il territorio, ho ripassato alcune procedure mediche tipiche della guerra e poi… béh, una volta sul posto, dovrò capire come e dove nascondermi o scappare se ce ne sarà bisogno”.
È grazie alla blue/yellow NGO, organizzazione che raccoglie materiale protettivo per i soldati al fronte se ora riesce a realizzare il suo viaggio. “Forse dovremo dipingere le ambulanze, sono troppo visibili. Questa non è una guerra come le altre, anzi, questa non è neanche una guerra, è un’operazione criminale su vasta scala”. La differenza tra questa e le altre guerre, secondo Gedus, è proprio questa. “In una guerra, ci scappa l’errore, certo, ma qui sono state bombardate decine di ospedali, io non capisco, normalmente si combattono i nemici e invece in Ucraina c’è un’intera generazione traumatizzata che non si riprenderà mai”.
"Parlo estone e sono un giornalista russofono"
Andrei Shumakov ha una storia simile a quella di altri giornalisti russi, ma ne è uno dei precursori. “Me ne sono andato da Mosca dopo i Giochi di Sotchi, nel 2014. Facevo il cronista sportivo, ricordo di essere uscito dalla cabina di commento, pensavo alla Crimea, ero scioccato. Il mio Paese ne aveva amputato un altro”.
Il quarantenne non ci ha messo molto a organizzarsi. È intraprendente. Approda in Lettonia, poi si trasferisce a Tallinn, dove cura le sue ferite perché con la sua partenza si consuma anche una dolorosa spaccatura con la sua famiglia, tutt’ora pro-Cremlino.
Oggi, Andrei è il caporedattore della redazione russa di Delfi, che ha l’aria di essere anche un po’ la sua casa. È lì che ci accoglie e che mette subito le mani avanti, “il mio inglese non è molto buono”, aprendo un capitolo centrale per capire la società in Estonia e negli altri Stati Baltici.
Se il suo inglese è un po’ singhiozzante, il suo estone è sorprendente. “Oltre ad essere un tipo molto divertente, ciò che ci ha colpito sono i suoi sforzi per imparare la lingua”, dice un collega a lui molto caro. “Studiava tutti i giorni con un collega, anche solo 15 minuti, e faceva anche i corsi ufficiali. L’ha imparato subito, è un caso unico”.
In Estonia vivono 320'000 russofoni di cui la maggior parte non parla la lingua ufficiale e si nutre quindi di media russi, per lo più controllati da Mosca, che alimenta divisioni sociali in tutti gli Stati baltici, con manipolazione e disinformazione.
Un fenomeno emerso nel 2007, quando Tallinn rimuove la statua al soldato dell’armata rossa, ritenuta più un simbolo dell’occupazione e dell’oppressione sovietica che della vittoria contro il nazismo. La propaganda russa spinge membri della comunità russofona a scendere in piazza perché segno di discriminazione. È guerriglia urbana.
È dopo quell’episodio che sono nati televisione, giornali e siti locali bilingue. Come quello per cui lavora Andrei, che con i suoi articolo e podcast affronta tanti temi, tra cui la guerra in Ucraina, sperando che la società si ricompatti e che parlare di russofobia – termine che lo fa ridere – così come di paura verso russi e russofoni non abbia più alcun senso.
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Telegiornale 01.04.2022, 22:00