La trattativa Stato-mafia per far cessare le stragi degli anni Novanta c’è stata, ma il fatto non costituisce reato. A sentenziarlo giovedì i giudici della Corte di appello di Palermo, che hanno assolto il senatore Marcello dell’Utri e gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subrani e Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. Il verdetto ribalta le pesanti condanne inflitte in primo grado nel 2018.
I tre militari dell’Arma escono dal processo "perché il fatto non costituisce reato". Secondo la ricostruzione dei giudici, i carabinieri avrebbero sì intavolato un dialogo con le cosche tramite don Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, allo scopo di far cessare le stragi. Ma la loro intenzione non era farsi portavoce presso le istituzioni della minaccia di Cosa nostra. Agirono sì, dunque, ma a fin di bene. Una visione completamente opposta a quella della Corte d'Assise, secondo la quale i carabinieri con il loro comportamento finirono per rafforzare l’organizzazione criminale e indurla a pensare che lo Stato, pronto ad ascoltare le sue istanze, stava per capitolare.
L'ex senatore, accusato di esser stato, dopo il 1993, la cinghia di trasmissione tra la mafia e le istituzioni e di aver fatto arrivare la minaccia dei clan al governo guidato da Silvio Berlusconi, chiude invece la sua vicenda processuale "per non aver commesso il fatto". Al contrario, la Corte ha confermato la condanna per il medico mafioso Nino Cinà, che trasmise il famoso papello, lista dei desiderata dei mafiosi, e ridotto di un anno la pena del boss Leoluca Bagarella, rei di avere minacciato lo stato. Dichiarate invece prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca.
Occorre attendere le motivazioni della sentenza, ma il verdetto dei giudici di Palermo destruttura e mette in dubbio l’impianto accusatorio del pool di procuratori dell’antimafia costruito in decenni di indagini.