Fra offensive a colpi di dazi, ordini esecutivi emessi a iosa e radicali cambi di rotta sull’Ucraina e Gaza, Donald Trump ha ormai ripreso il ruolo di commander in chief con tutta l’irruenza che gli è propria. Sul piano interno ha messo subito in atto la sua linea dura verso i migranti e proceduto ad un’ondata di tagli alle strutture governative. Il mondo appare poi spiazzato di fronte ad un presidente che, trascorso poco più di un mese dal suo reinsediamento, ha già cambiato in profondità i lineamenti della politica estera di Washington. Certo, qualcuno osserverà, le dinamiche delle relazioni internazionali non si esauriscono tutte nella sola Casa Bianca. Ma il peso specifico degli USA resta comunque preponderante e Trump, che ne è ben conscio, procede imperterrito sulla sua strada. Di qui un confronto senza mezzi termini con più Paesi e perfino mire dichiarate sul Canada, sul canale di Panama e sulla Groenlandia che, solo fino a qualche mese addietro, sarebbero suonate impensabili.
Mario Del Pero, specialista di storia internazionale e degli USA, è docente presso l'Istituto di studi politici di Parigi
Tanto decisionismo può alimentare la percezione di una presidenza che si vede, per così dire, “onnipotente”: dotata cioè di margini di manovra tali da consentirle la massima risolutezza e un approccio quasi indifferente ai dissensi interni e alle posizioni di gran parte della comunità internazionale. Ma cosa sottende tutto questo? “Credo che ci sia la volontà di dare un’immagine di politica diversa, quasi di antipolitica”, osserva Mario Del Pero, professore di storia internazionale e storia degli USA presso l’Istituto di studi politici di Parigi. A livello interno si cerca di dar corso ad un tratto che “caratterizza i populismi autoritari”, ossia la rimozione di “tutti i diaframmi intermedi nel rapporto diretto fra il popolo e il suo eletto, il suo leader”: le istituzioni, le agenzie indipendenti di controllo, lo stesso sistema democratico di pesi e contrappesi. Spicca così una volontà esplicita di “alterare i rapporti fra i poteri”, dando molto più potere all’Esecutivo e addirittura in ambiti “in cui si poteva e doveva coinvolgere un Congresso a maggioranza repubblicana”.
A livello interno una “torsione autoritaria”
C’è insomma un disegno molto preciso. Ma come può conciliarsi con gli equilibri di potere che caratterizzano, storicamente, la costituzione degli Stati Uniti? La carta fondamentale, in effetti, “circoscrive e limita i poteri dell’Esecutivo” e anche nel segno di un “presidenzialismo debole” che fu “deliberatamente una scelta dei Padri costituenti” alla fine del Settecento. Ma la Costituzione USA è anche “molto scheletrica, molto essenziale” e tale quindi da lasciare “mille isole di ambiguità”. Senza poi contare che nel tempo molte cose sono mutate: la Corte Suprema “ha fatto e continua a fare giurisprudenza costituzionale” e il potere dell’Esecutivo è cresciuto parallelamente “alla crescita dell’influenza globale della potenza” statunitense.
Ora, si assiste ad una “torsione evidentemente autoritaria”. E in questo senso il provvedimento più “emblematico, anche per la sua valenza simbolica” è l’ordine esecutivo di Trump che ha la pretesa di cancellare un pezzo della stessa Costituzione: quel 14esimo emendamento che stabilisce il diritto di cittadinanza per nascita sul territorio degli Stati Uniti. Certo, per emendare la carta fondamentale è necessario “un processo molto complesso, che richiede ampie maggioranze”: dai voti qualificati dei due rami del Congresso, fino alla ratifica da parte di tre quarti degli Stati dell’Unione. Ma intanto la mossa del capo della Casa Bianca ha l’effetto di “schiacciare la Costituzione” e su un tema basilare. L’articolo sullo ius soli, infatti, rappresenta uno dei “fondamentali emendamenti” adottati dopo la Guerra civile USA, che permisero “la trasformazione della democrazia americana in una grande democrazia multirazziale”. Il provvedimento di Trump si configura quindi come “un passaggio davvero forte”.
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Vari provvedimenti di Trump sono già stati bloccati da giudici: ma quali potrebbero essere i successivi sviluppi di un confronto fra il presidente e il potere giudiziario?
Ma la democrazia USA può sostenere questa torsione? “Sulla carta sì, e in una certa misura lo sta già facendo”, ritiene Del Pero. Ad un Congresso tenuto ai margini, sta in effetti subentrando il potere giudiziario con “corti e giudici che hanno già bloccato tutta una serie di provvedimenti”. Proprio come nel caso del decreto sul diritto di cittadinanza, la cui “patente incostituzionalità” è stata denunciata da un vecchio giudice di area repubblicana, “nominato ancora da Ronald Reagan”. A emergere sono però diversi interrogativi. Uno di essi è legato al fatto che Trump in una certa misura “uno scontro costituzionale lo sta cercando” e “con l’auspicio di portare” le dispute “nelle corti d’appello e alla Corte Suprema”, la cui maggioranza è notoriamente di orientamento conservatore. L’obiettivo, fra tanti ordini esecutivi “dalla dubbia costituzionalità o legalità”, sarebbe comunque quello di portare “a casa qualcosa”. E in questo senso anche vittorie parziali a livello giudiziario stabilirebbero comunque “dei precedenti costituzionali e politici”, a tutto vantaggio del presidente.
Inoltre, rammenta Del Pero, nell’America di Trump sta “partendo una slavina di nomine giudiziarie”. E se c’è un ambito nel quale Trump “agì in modo incisivo e con successo”, durante il suo primo mandato, fu proprio “nella nomina dei giudici”. A delinearsi, insomma, è anche un “tentativo di alterare” la rappresentanza delle corti. Ma lo scenario più problematico, a ben vedere, concerne un’altra possibilità: che succederebbe infatti, se Trump decidesse “di non rispettare le ingiunzioni, le decisioni delle corti”? Ad un’iniziativa di questo tipo dovrebbe seguire un procedimento nei suoi confronti. Il punto però è che Trump “beneficia nel suo ruolo presidenziale”, e grazie ad una decisione della stessa Corte Suprema, “di un’immunità sostanzialmente totale”. Un atteggiamento di aperta sfida - e, segnala Del Pero, “abbiamo già delle avvisaglie” - aprirebbe quindi una partita complessa. Qualcosa che sancirebbe “a tutti gli effetti una crisi costituzionale” e democratica. E “credo che siamo ad un passo” da un simile scenario, sottolinea l’esperto.
Nel mondo, una “declinazione brutale” dell’interesse nazionale
Fin qui, una disamina sui tanti aspetti legati all’azione di Trump sul piano interno. Ma è su quello internazionale che si addensano i maggiori interrogativi. Il presidente ostenta la massima determinazione nel perseguimento dei suoi obiettivi. Tanto da indurre taluni osservatori a parlare di un approccio neoimperialista verso il resto del mondo. Ma quante possibilità di affermarsi ha questo disegno egemonico, in un quadro internazionale che ha ormai più attori di indubbio peso? “Io non credo che ci sia stata un’evoluzione multipolare dell’ordine internazionale”, osserva Del Pero, sottolineando che gli Stati Uniti si confermano sempre nella posizione di attore superiore per più ragioni: come la “capacità di proiezione del loro hard power militare”, con centinaia di basi nel mondo, e il dollaro che finora “non è mai stato scalzato dal ruolo di egemone valutario”. Questi e altri fattori danno la misura di una potenza che gli Stati Uniti continuano a detenere e che all’occorrenza può “essere utilizzata come clava”.
Trump ricorre quindi al “linguaggio di una Realpolitik molto grossolana”. La politica internazionale viene così “presentata come un’arena anarchica, competitiva e brutale, dove ognuno cerca di massimizzare i propri interessi a scapito di quelli degli altri”. Un contesto in cui “non ci sono alleanze permanenti”, né valori e principi, ma “solo una declinazione brutale dell’interesse nazionale”. Tutto ciò concorre a delegittimare la “struttura della governance globale” che si articola sul diritto e sulle istituzioni internazionali: un assetto incompleto, da rivedere, ma che costituisce anche “quel poco di cui disponiamo per cercare di governare il mondo”. La linea del presidente è invece volta a leggere le relazioni internazionali “in chiave di potenza e di gerarchia di potenza”. Col risultato di alimentare “atteggiamenti analoghi anche” da parte di “tutti gli altri soggetti” in campo.
Una lettura del quadro internazionale che passa, soprattutto, attraverso una competizione di potenza fra Stati Uniti e Cina
Più nel dettaglio il contesto globale viene letto “come un quadro caratterizzato da un nuovo grande antagonismo di potenza fra gli USA e la Cina”. Attraverso questa chiave vanno lette molte scelte dell’Amministrazione Trump e, in particolare, le “forti pressioni sugli alleati europei”, con i quali “cambiano le regole del gioco”. Si punta a far sì che partecipino “più attivamente a questa campagna globale di contenimento” di Pechino, cercando di “disaccoppiare la propria economia da quella cinese”. Ma le pretese di Trump verso l’Europa si estendono a più versanti: dagli scambi commerciali fino, come la cronaca più recente si è incaricata di mostrare, ad “una qualche garanzia securitaria che dovrà essere data all’Ucraina”.
Fra Ucraina e Medio Oriente
Questo pone però vari problemi. A profilarsi è ormai una qualche soluzione del conflitto che andrebbe a vantaggio di Mosca. In questo senso “i contorni sono abbastanza chiari” e la Russia otterrebbe “significative concessioni territoriali”. Che dire però delle garanzie di sicurezza da dare a Kiev? “Gli Stati Uniti non sono disposti a farsene carico” e dovrà essere quindi l’Europa “a tirar fuori dal cilindro qualcosa” che però “l’Europa non ha”: perché un conto, sottolinea Del Pero, è “mandare 6’000 peacekeepers a guardare un villaggio”, mentre ben altro “è dare una garanzia securitaria vera”. Varie questioni restano così aperte, ma intanto tutto ciò rende l’idea di come Trump “vede l’Europa, la sicurezza europea e i rapporti con gli europei”.
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Colloqui per porre fine alla guerra in Ucraina: quali garanzie di sicurezza per Kiev? Un possibile dislocamento di militari europei, per il mantenimento della pace, è stato al centro del recente incontro alla Casa Bianca fra Trump e il presidente francese Emmanuel Macron
Quanto al Medio Oriente, l’impressione è “di una piena carta bianca” degli USA al governo d’Israele, sullo sfondo “di un rapporto ancora più speciale e organico” fra le destre dei due Paesi. A suffragare questa percezione, ricorda Del Pero, è stata anche la recente audizione in Senato di Elise Stefanik per la conferma della sua nomina ad ambasciatrice all’ONU: e in questa sede la politica newyorkese, trumpiana ortodossa, ha dichiarato di condividere “l’idea che Israele abbia un ‘destino biblico’ al controllo della Cisgiordania”. Ma posizioni “con toni ancora più radicali, molto messianici, evangelici” le ha espresse anche Mike Huckabee, il futuro ambasciatore USA a Gerusalemme. Sembra quindi che si vada davvero verso una relazione fortissima fra Israele e Stati Uniti, “di cui le principali e prime vittime saranno i palestinesi”.
Resta da vedere come si riuscirà a cooptare l’Arabia Saudita, “che ha un rapporto molto stretto con la famiglia Trump”, all’interno di questo schema. “Io credo”, afferma Del Pero, “che Trump pensi di” pagarne “l’acquiescenza in qualche modo: soldi, armi, affari...”. Ad ogni modo “è questa la linea che si sta immaginando per il Medio Oriente”. Tutto ciò, afferma l’esperto, porterà a ulteriore frammentazione e instabilità. Ma la frammentazione, secondo Del Pero, è proprio “un obiettivo di Trump”: l’obiettivo di “deglobalizzare, di togliere influenza, sottrarsi ai meccanismi del multilateralismo, della governance globale”. Pensando di poter usare “le leve di potere di cui gli USA ancora dispongono” come strumenti di pressione.
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Presidenza Trump, l'analisi di Grover Norquist
Telegiornale 20.02.2025, 20:00