"Se alla guida ci fosse stato un afroamericano, la polizia avrebbe sparato".
Scuote la testa Mike, un ragazzo dinoccolato che studia all’Università della Virginia. È tra i pochi rimasti in giro. Quando cala la sera, il centro di Charlottesville ormai è quasi deserto. Soltanto la polizia presidia ancora la Main Street, l’arteria pedonale del centro tagliata in modo perpendicolare dalla Quarta Strada, dove una Dodge Grigia ha travolto decine di passanti. Alla guida c’era James Fields, 20 anni, dell’Ohio, poi arrestato e incriminato per omicidio.
"Non ho visto chi guidava, l’auto aveva i vetri scuri", dice alla RSI Kessie Lowdron, una testimone oculare. La incontriamo pochi minuti dopo l’attacco contro i pedoni.
Scatti dalla manifestazione
"Ho visto delle persone buttate letteralmente in aria. Dopo averle investite l’auto ha fatto retromarcia per scappare". Lei ha cercato subito di soccorrere i feriti. "Non so se la ragazza che ho cercato di aiutare ce l’abbia fatta – racconta - era ferita gravemente". Di sicuro non ce l’ha fatta Eather Eyer, 32 anni. Altre 19 persone sono rimaste ferite, alcune in modo serio.
L’America paga un prezzo altissimo nel giorno dell’odio razziale ostentato da centinaia di estremisti di ogni sorta in questa cittadina del sud della Virginia.
Altre due vittime si aggiungono a causa della manifestazione che suprematisti bianchi, neonazisti e nazionalisti annunciavano come la più imponente degli ultimi decenni. Due agenti di polizia sono morti nello schianto del loro elicottero, impegnato a garantire sicurezza all’iniziativa intitolata "Riunire la destra".
Il generale Lee
Il pretesto per il raduno dei suprematisti bianchi è stato il Generale Lee. La città di Charlottesville vuole rimuoverne il monumento. Non sarebbe il primo simbolo degli Stati sudisti ad essere rimosso. South Carolina e Louisiana hanno già voltato pagina. Ma in Virginia ancora si discute. Per questo gli alfieri della supremazia dei bianchi ne hanno approfittato. A luglio a Charlottesville c’era stato un meeting del Ku Klux Klan. Ora il grande raduno del razzismo manifestano nelle sue forme più estreme. Il clima si era già intuito venerdì sera. Centinaia di aderenti all’ultra-destra avevano marciato verso l’Università della Virginia con le torce. Proprio come gli "incappucciati" del Klan. Scontri e tafferugli. E la polizia rimasta a guardare fino all’ultimo.
Proprio come è accaduto sabato mattina. Abbiamo visto gli agenti inerti quando i manifestanti di destra hanno ostentato violenza, slogan razzisti e antisemiti, ottenendo in cambio la reazione rabbiosa di chi li contestava. Qualcuno – tra i nazionalisti bianchi - inneggiava a Donald Trump, col saluto nazista "Heil Trump".
Al suo arrivo, ho seguito da vicino il sedicente leader della cosiddetta destra alternativa, Richard Spencer, scortato da 12 persone. Guardie armate della milizia di destra mi hanno però impedito l’accesso al Parco in cui si trova la statua del generale Lee. Centinaia di persone hanno organizzato una contromanifestazione. "È assurdo, non possiamo permettere che questa persone invadano la nostra città", gridava Steven, sudatissimo. Centinaia di attivisti sono scesi in piazza. Antifascisti, Black Lives Matters, organizzazioni della società civile.
"Chiunque deve avere il diritto di esprimere la propria opinione", mi ha detto Tom Evins, un signore di mezza età venuto a vedere da vicino la calata di nerboruti omaccioni avvolti nella bandiera confederata, le rivoltelle in vista e il fucile semiautomatico a tracollo.
Uno spettacolo desolante. Le due Americhe separate da un solco di arroganza di quella parte convinta di contare di più. "You will not replace us", non ci sostituirete, gridano i suprematisti bianchi. Ringalluzziti – come è apparso il leader del Ku Klux Klan David Duke – per avere adesso un protettore alla Casa Bianca. O una sponda ideologica in Steve Bannon, il chief strategist di Donald Trump.
Brandiscono la razza come una certezza.
"Non vogliono il dialogo. E poi come si fa a dialogare con chi non riconosce la nostra umanità?" mi chiede Wes Gobar, presidente degli studenti afroamericani dell’Università della Virginia (costruita dagli schiavi del presidente Thomas Jefferson, tra l’altro).
"Vogliamo sostenere la nostra storia, i nostri diritti e la libertà di espressione", mi spiega invece uno degli estremisti – ben armato, uno dei pochissimi che accetta di parlare al microfono. Dagli altri solo silenzio e sguardi torvi.
Finisce come tutti avevano previsto: insulti, botte, lanci di bottigliette di plastica e qualche sasso. La polizia sta a guardare fino a quando il Governatore decreta l’emergenza. "Disperdetevi o vi arrestiamo" grida un sergente della Guardia Nazionale della Virginia nel megafono. Ormai è troppo tardi.
Dal nostro inviato, Emiliano Bos
RG 12.30 del 13.8.2017 Il reportage
RSI Info 13.08.2017, 15:33
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