Lungo le strade principali, sulla linea della costa, in mezzo ai campi. Praticamente dappertutto. Viaggiando per l’Albania ci si imbatte di continuo in piccoli bunker. Gusci di cemento, indistruttibili, all’interno di quali ogni albanese capace di maneggiare un’arma si sarebbe dovuto rinchiudere per difendere il Paese, se fosse stato invaso.
I bunker furono una delle tante decisioni paranoiche del dittatore comunista Enver Hoxha, al potere fino alla sua morte, nel 1985.
Questi erano bunker visibili. Ma ce n’erano anche di segreti, scavati interamente sottoterra. Uno, il più grande, era il rifugio anti-atomico dello stesso Hoxha, alle porte di Tirana. Un altro, quello del Ministero degli Interni, nel piano centro della capitale.
Oggi entrambi ospitano dei musei, il Bunk'art e il Bunk’art 2. Nel primo si ripercorre la storia dell’Albania comunista, con qualche parentesi dedicata anche al periodo monarchico e all’occupazione fascista. Nel secondo si indaga la brutalità repressiva della Sigurimi, la polizia segreta.
In entrambi c’è a tratti la ricerca della sensazione. Si punta un po’ a stupire. Ma non si può pretendere un distacco rigoroso. Infatti i Bunk’art sono operazioni commerciali, che coniugano memoria e profitto. E, come suggerisce la seconda parte del nome, c’è anche voglia di contaminazione. Nel primo bunker, che si presta molto più del secondo, dato lo spazio che sa offrire, si sono tenuti concerti rock e jazz, oltre che varie iniziative artistiche. “Un modo per dissacrare questi posti e dare spazio a forme espressive che durante il comunismo furono vietate”, spiega Carlo Bollino, giornalista italiano di stanza da anni a Tirana, e curatore di Bunk’art.
Matteo Tacconi