La vita nei campi, l’impossibilità di garantire un’educazione ai propri figli, le precarie condizioni di salute di molti. Questa la vita dei profughi siriani in Libano, profughi che hanno numeri da capogiro: a fronte di poco più di 4 milioni e mezzo di autoctoni, i profughi sono, infatti, oltre un milione. Un paese a rischio collasso e instabilità, stando alle analisi della Croce Rossa Internazionale che fa appello ad un’equa ridistribuzione dei profughi in Europa.
A Tripoli, un’ora e mezza a nord di Beirut, il secondo piano dell’ospedale pubblico “Dar Al Chifaa” è gestito dalla Croce Rossa Internazionale con il progetto WTTC (Weapons Traumatology and Training Centre). Le uniche specializzazioni attive sono chirurgia di guerra e chirurgia ricostruttiva e i pazienti sono siriani, irakeni, yemeniti, egiziani e libanesi, poiché per rimanere feriti in un conflitto a fuoco purtroppo non è indispensabile vivere in un Paese in guerra.
Il WTTC è una terra di mezzo nella quotidianità sanitaria locale. Qui i pazienti vivono in una sorta di limbo dove a volte si trasferisce l’intera famiglia, come è accaduto a Bassam, poiché spesso tra l’operazione e la completa riabilitazione trascorrono dei mesi. I medici e gli infermieri della Croce Rossa sanno che il loro unico scopo è salvare vite, senza distinzione di colore, religione, credo politico. Non chiedono in quale conflitto siano stati colpiti o per chi stessero combattendo. Bassam è un negoziante rimasto ferito dall’esplosione di una bomba mentre stava lavorando nel suo negozio di Aleppo. E chissà quale vita ha ospitato quella stanza prima di ospitare lui.
Valerio Nicolosi