Varsavia, nel 1939, prima della seconda guerra mondiale, era una grande metropoli ebraica. Su un milione e 200mila abitanti, 350mila erano ebrei. La loro cultura era parte integrante della storia cittadina e lo era da tempo immemore. La Polonia, dal secolo XI, aprì le sue porte agli ebrei perseguitati nel resto d’Europa e in Russia. Con il passare degli anni, quella polacca divenne la più grande comunità ebraica del vecchio continente (tre milioni di persone). L’invasione nazista della Polonia - datata primo settembre 1939 - e le atrocità sistematiche che ne seguirono, spazzarono via tutto.
Le cose - per i pochi ebrei di Varsavia rimasti in vita (circa 15'000), e restati nella capitale (ben di meno) - dopo la guerra e l'Olocausto non furono semplici. Il regime era molto ideologico e per conquistare consenso non esitò a far leva sul nazionalismo. Gli ebrei furono spinti ai margini. Di loro si diffidò. Professare l’identità ebraica, per tutto quel periodo, fu molto difficile.
Crollato il comunismo, la comunità ebraica è potuta tornare in superficie, ha potuto riorganizzarsi. Oggi conta poche persone – saranno sulle duemila – ma è molto attiva a livello sociale e culturale. Uno dei fenomeni più interessanti di questo trentennio di democrazia consiste nel fatto che molte persone, che avevano di fatto rinunciato alla propria identità ebraica durante il comunismo, hanno compiuto un percorso di riappropriazione. O addirittura, di scoperta ex novo. Le due storie che raccontiamo, quella dell’attivista ebrea Agata Rakowiecka e di Maciej Kotlicki, da poco convertitosi al giudaismo, sono due fotogrammi di questa ampia fotografia.
Matteo Tacconi
N.d.R.: Questa e le prossime tre storie di questo mese sugli ebrei di Varsavia (12, 19 e 26) anticipano e completano un reportage di circa 20 minuti che andrà in onda su LA1 sabato 27, alle ore 12, per la trasmissione Segni dei Tempi.