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Il lato sporco dei blue-jeans

C'è una città in Messico, nello stato di Puebla, dove l'industria tessile ha annientato l'agricoltura inquinando le acque

  • 2 marzo 2018, 06:56
  • 8 giugno 2023, 16:27

Agua azules

RSI/Laura Filios 02.02.2018, 06:30

  • ©Laura Filios

A Tehuacán si contano più di 25 fabbriche, tra legali e clandestine, dove vengono lavorati i jeans. Da più di trent'anni, la città nello stato di Puebla è, infatti, un polo dell'industria tessile. E il Messico, in questo settore, è secondo solo alla Cina. Famosa un tempo per la purezza delle sue acque, oggi la notorietà di Tehuacán è dovuta al colore delle stesse. “Agua azules”, le chiamano. Ruscelli e canali d'irrigazione ad una certa ora del giorno si tingono di blu. O meglio di blue-jeans. È il momento in cui le lavatrici finiscono il loro ciclo e scaricano i residui del processo di sabbiatura nei canali di scolo, perché è così che oggi i jeans vanno di moda: “slavati”.

A causa delle acque contaminate, ai contadini di interi paesi è stato proibito di coltivare le verdure, di tenere un proprio orto. L’unica coltura che si può piantare è il mais. Il rischio è una multa salata, se non addirittura il carcere, specialmente se poi queste persone, per campare, vanno a vendere i loro prodotti ai mercati cittadini.Nonostante nel 2011 Greenpeace abbia lanciato la campagna “Detox my fashion”, per sensibilizzare il mondo della moda sulle tematiche ambientali e, nel 2012, abbia pubblicato il report “Hilos Toxicos”, proprio sulla contaminazione dei fiumi da parte delle industrie tessili in Messico, a Tehuacán in questi anni poco o nulla è cambiato. Le lavanderie, collegate ai grandi marchi, come Levi’s o Tommy Hilfinger, continuano a scaricare le acque di lavorazione nei canali e ancora non è stato costruito un depuratore.

Soffrono la terra e i suoi abitanti

A soffrire, però, non è solo l'ambiente ma anche le operaie e gli operai. Prima di essere lavati, i pantaloni vengono, infatti, trattati con agenti chimici. Lucìa, lavora da più di 30 anni per un'impresa che vanta anche un certificato di “responsabilità sociale”. Nel 2015 le hanno diagnosticato la Byssinosis, una malattia polmonare molto diffusa un tempo tra gli schiavi delle piantagioni di cotone. Per questo l'impresa dovrebbe dotarla di una mascherina apposita, «ma – rivela – le norme di sicurezza vengono applicate solo quei due o tre giorni all'anno in cui ci sono i controlli, per tutto il resto del tempo lavoriamo senza mascherina e senza guanti».

Lo scorso 9 febbraio, 70 mila persone firmando una petizione hanno chiesto, tra gli altri ad Armani e Primark, di rendere trasparente il proprio processo di produzione. La loro voce si è fatta sentire grazie alla Clean Clothes Campaign (Abiti puliti in Italia), la più grande alleanza di sindacati e organizzazioni non governative che mira al miglioramento delle condizioni lavorative nel settore dell'abbigliamento. Tra le varie iniziative lanciate dall'associazione, c'è proprio anche una campagna contro la sabbiatura dei jeans, che però sembra essere rimasta ferma al 2013, mentre la qualità della vita delle persone coinvolte continua a peggiorare, proprio come sta succedendo a Tehuacán.

Laura Filios

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