“È la guerra”. Quante volte il linguaggio bellico è stato evocato, da quando l’epidemia da Covid-19 si è diffusa in Europa? Moltissime. I primi ad utilizzarlo sono stati i leader e i presidenti europei, primo fra tutti il presidente francese Emmanuel Macron. Questo linguaggio bellico si porta dietro, come un armamentario ingombrante, molte altre metafore: così le terapie intensive sono diventate “la prima linea”, i reparti di malattie infettive “le retrovie”, i medici “gli eroi” e le infermiere “gli angeli”. Ma sempre l'uso dello stesso linguaggio ha avuto, tra i primi effetti, anche l’assalto ai beni primari nei supermercati e, tra le conseguenze successive, un clima di caccia al vicino che corre nel parco o conduce il cane a passeggio.
Seppure alcune criticità di una pandemia siano molto simili a una guerra (il numero elevato di morti, l’enorme sforzo del personale sanitario, l’incertezza economica e la limitazione di movimento) molte altre non lo sono affatto. Lo spiega agli italiani con il suo canale YouTube Jalaltv, Taha al-Jalal, un giovane yemenita che vive in Italia. Dopo essere fuggito alla guerra, avere richiesto l’asilo e avere subìto tre chirurgie per tumore al cervello, Taha spiega perché questa – per quanto difficile soprattutto per le persone immuno-depresse e le famiglie colpite da Covid – non è la peggiore delle crisi possibili.
Laura Silvia Battaglia