Di suicidio assistito si parla spesso in Svizzera, anche perché è consentito. E ha regole e raccomandazioni che in altri Paesi non ci sono. La notizia è di qualche giorno fa: nel canton Sciaffusa la controversa Capsula Sarco è stata utilizzata per praticare un suicidio assistito. Una persona si è tolta la vita con l’azoto. La magistratura sciaffusana ha reagito, ha arrestato diverse persone per incitamento e assistenza al suicidio. La consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider in Parlamento ha detto che la Capsula Sarco non è conforme alla legge.
Dottor Mattia Lepori, membro della Commissione Etica dell’Accademia svizzera delle scienze mediche, cosa la colpisce maggiormente di questa vicenda?
“Di primo acchito, quello che colpisce è evidentemente l’aspetto che oserei definire “di marketing”. In Svizzera infatti abbiamo circa 1’200-1’300 assistenze al suicidio ogni anno, ovvero 3-4 al giorno. Un numero costante da diversi anni. Il tutto avviene nella discrezione, e non sto dicendo nell’illegalità, ma nell’intimità di chi accompagna una persona in una scelta sicuramente sofferta e dolorosa. Nessuna delle società che si occupano di assistenza al sucidio ha mai sentito il bisogno di fare della pubblicità. Questa macchina, questo “gadget”, viene a riempire un bisogno che in realtà non c’è, perché 1’300 assistenze al suicidio avvengono con il metodo farmacologico e non pongono dei problemi particolari a chi lo utilizza.
Il secondo aspetto che pone degli interrogativi è quello legato al fatto che ci si concentri molto sul procedimento e non sulla procedura. A non essere chiaro è quali sono le procedure attraverso le quali i pazienti o le persone che fanno questa richiesta vengono poi ammesse. Sapendo che la legislazione in Svizzera è estremamente liberale, perché l’unica condizione per non essere puniti sulla base del codice penale è quella che non si agisca per un cosiddetto motivo egoistico, che è lo scopo di lucro”.
Nel 2023, ci sono stati 1’252 casi di suicidio assistito in Svizzera, 21 nel Canton Ticino, 24 nel canton Grigioni. Adesso nel canton Sciaffusa è partita la macchina giudiziaria. Lei teme che questa vicenda legata alla capsula Sarco possa rimettere in discussione le norme e le raccomandazioni che voi avete elaborato in tema di assistenza al suicidio?
“E’ bene precisare che, di per sé, chiunque può assistere chiunque al suicidio con qualsiasi metodologia, poi eventualmente commetterà delle infrazioni legate ad altre legislazioni, ma non sulla base del codice penale. Quindi l’Accademia svizzera di Scienze mediche si è espressa su quello che riguarda la stragrande maggioranza dei suicidi assistiti, quindi di persone che hanno una malattia, in genere terminale o comunque che comporta delle sofferenze importanti. E in questi casi è un medico che fa le prescrizioni farmacologiche necessarie, perché è il solo autorizzato a farle. C’è probabilmente una piccola parte ancora di suicidi assistiti che rimane ‘sommersa’ perché non annunciata.
Queste raccomandazioni da qualche parte servono al medico per interpretare correttamente il codice penale e al tempo stesso per mantenere un comportamento che sia giudicato deontologico. Queste raccomandazioni sono state integrate nel codice deontologico della Federazione dei medici svizzeri. Il timore non è tanto che questo tipo di spettacolarizzazione del problema induca l’inutilità delle raccomandazioni ma vada a riaprire la questione sull’articolo 115 del Codice penale che effettivamente è un po’ un unicum in Svizzera, a parte i Paesi del Benelux, presente nel Codice penale dalla prima metà del secolo scorso e che non era stato creato con lo scopo di assistere al suicidio le persone ammalate, ma con tutti altri scopi”.
In Svizzera c’è necessità di una legge che regolamenti il fenomeno? O sarebbe forse un problema farla, in tutta onestà?
“E’ un grande dibattito quello di sapere se sia necessario o meno creare una legge ad hoc che vada ad interpretare quali sono le condizioni, quindi approfondendo il contenuto dell’articolo 115 del Codice penale, e c’è un grosso dibattito sia nella comunità scientifica che nella comunità di chi si occupa di etica e di deontologia professionale. Non tutti sono d’accordo. C’è una corrente, in particolare all’interno della Commissione nazionale di etica - quindi quella che è nominata dal Consiglio federale -, che spinge per la creazione di una legge ad hoc. Attualmente devo dire che nella stragrande maggioranza dei casi, se penso alle due associazioni che si occupano di queste cose, mi sembra che i paletti siano ben rispettati. E forse la necessità di legiferare non è così impellente. Anche perché legiferare, d’accordo, ma poi come? E chi? E su questo anche chi propugna la soluzione della legge. In realtà la soluzione di poi come realizzare questa legge non c’è”.
Subito dopo l’emanazione delle direttive, le associazioni, in particolare Exit e Dignitas, che sono quelle più note in Svizzera, le hanno un po’ criticate e giudicate inizialmente poco chiare. Un paio d’anni dopo vanno meglio?
“Sì, penso che è stato un lungo processo perché sono state criticate nella loro prima versione del 2019. Da una parte da chi si occupa di questi aspetti dell’assistenza al suicidio, che le riteneva troppo restrittive e dall’altra anche dalla Federazione dei medici svizzeri che, in realtà, le riteneva troppo liberali, per cui è stato poi un lavoro di compromesso, tra tutti gli attori in campo, per arrivare a questa versione del 2021, che si può tranquillamente consultare gratuitamente sul sito dell’Accademia Svizzera di Scienze Mediche. Ed è una soluzione, non tanto di “compromesso”, termine che mi sembra dispregiativo, ma piuttosto una condivisione di intenti, un documento nel quale oggi chi pratica il suicidio assistito in ambito medico trova una risposta alla maggior parte delle questioni”.
Uno dei passi fondamentali indicati nelle direttive è certificare la volontà della persona che vuole togliersi la vita. Bastano due colloqui intervallati nel tempo per avere questa certezza?
“Il principio è che sia una volontà reiterata, non uno sfogo momentaneo. Due colloqui approfonditi sul tema quindi possono essere sufficienti ma possono non esserlo. L’importante è che ci sia un lasso di tempo sufficientemente lungo, almeno tra il primo e il secondo colloquio. Come dicevo prima, quando parlavo della capsula, non è tanto il procedimento che è importante, ma è la procedura, quindi tutto il percorso di avvicinamento. Una gran parte delle persone che si rivolgono ad Exit, infatti, poi non arrivano a compiere l’ultimo passo, perché trovano delle risposte. Una delle raccomandazioni a cui l’Accademia tiene molto e che ai pazienti vengano esposte tutte le alternative possibili. In particolare in ambito di cure palliative. E spesso ci si rende conto che una volta che queste alternative sono esposte in modo chiaro, le persone non sentono più il bisogno di accedere all’assistenza al suicidio”.