Svizzera

"Rahmat è arrivato in Svizzera"

Lui e la sua famiglia, fuggiti da Kabul, hanno ottenuto un visto umanitario. È riuscito in un'impresa disperata aiutato dal collega Roberto Antonini

  • 26 agosto 2021, 21:33
  • 20 novembre, 19:47
Fuggire dal proprio paese per continuare a vivere

Fuggire dal proprio paese per continuare a vivere

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Il visto umanitario, per lui e la sua famiglia, Rahmat l'aveva ottenuto giovedì 19 agosto. Da quel giorno, tutti i giorni, con la moglie, la mamma e due figlie, aveva cercato di raggiungere l'aeroporto di Kabul, ma... il caos, gli spari, la calca... Tutto concorreva a farlo decidere per un rientro a casa. A Lugano, dove Roberto Antonini e Philippe Blanc (i colleghi che aveva guidato e aiutato nell'ultima trasferta afghana), lo seguivano e sostenevano, per cinque giorni, a chi li interrogava, potevano rispondere solo: "Non ce l'hanno fatta". Poi, martedì 24, la notizia che in molti aspettavano: "È fatta! Sono al sicuro dentro l'aeroporto. Non si sa quando potranno essere imbarcati, ma... riusciranno a partire". Adesso, Rahmat e la sua famiglia, la scorsa notte, sono arrivati in Svizzera. Abbiamo chiesto al collega Roberto Antonini di raccontarci la storia di Rahmat... vista da qui.

C'era una volta l'Afghanistan

Da anni, quasi seguendo un moto ondoso, si torna a parlare di Afghanistan. Tu ci sei andato diverse volte (tre se non ricordo male) e allora ti chiedo: perché quest’interesse ondivago per un Paese oggettivamente distante dal nostro?

"Sì, in realtà seguo il conflitto dagli anni dell’invasione sovietica per ragioni legate alla cronaca giornalistica e soprattutto alla valenza globale che nei secoli ha assunto il paese. In fondo è proprio la guerra afghana ad aver messo fine all’impero sovietico. E fu in passato l’Afghanistan, al termine della terza guerra con il Regno Unito, a dare il via nel 1919 all’epoca delle decolonizzazioni. L’Afghanistan come “tomba degli imperi”: quanto successo in queste ultime settimane conferma la centralità del paese e il fatto che lì si consumino le sconfitte delle grandi potenze. Ma c’è un’altra ragione, meno contingente che spiega l'interesse per questo paese. È stato in passato, quando apparteneva all’impero persiano, la terra di grandi poeti e pensatori sufi, come il grande Rumi e lì da quelle parti, in quell' humus culturale, si è mosso anche uno dei maggiori filosofi, astronomi e pensatori medievali, l’immenso Omar Khayyam, di cui tra l’altro Amin Maaluf ci offre un bellissimo ritratto nel suo romanzo “Samarcanda” . Purtroppo di quel mondo culturalmente affascinante, da quello che ho visto nelle trasferte di questi anni, rimane davvero poco. Quel mondo è stato cancellato dalla guerra e dal fanatismo religioso".

Come fa un giornalista occidentale a muoversi e agire in un paese complesso come quello che hai tratteggiato, dove ci sono almeno 4 lingue ufficiali - farsi, dhari, pashtun, urdu – dove in pochi parlano l’arabo e in pochissimi – eccezion fatta per le grandi città - l’inglese?

"Diciamo che la lingua franca tra le diverse etnie è il dhari, il persiano. Come giornalisti ci si muove sempre con un fixer che funge anche da interprete (dal dhari all’inglese) e, last but not least, ci dà i giusti consigli per la sicurezza. Questa volta per esempio ci ha chiesto, a me e al regista, di indossare abiti tradizionali afghani per non dare nell’occhio".

Il tuo fixer, nell'ultima trasferta, è stato Rahmat. Cosa è successo, a lui e alla sua famiglia quando contro le previsioni degli stessi analisti americani, i talebani hanno raggiunto Kabul occupandovi il palazzo presidenziale?

"Rahmat era ben cosciente del pericolo imminente. Di fatto il terrore era già presente in città: da un anno c’è stata un'escalation della violenza, uno stillicidio quotidiano di attentati, agguati, sequestri, stragi da parte dei talebani o dell’Isis. La vita era diventata ad altissimo rischio, soprattutto per i giornalisti come lui. L’Afghanistan è di gran lunga il paese più pericoloso al mondo per la nostra professione. Talebani, al Qaida o Isis spesso fanno esplodere una seconda bomba sul luogo degli attenti aspettando che arrivino i reporter. In uno di questi sono stati uccisi otto giornalisti. Dunque quando i talebani sono arrivati, lui ha provato con tutti i mezzi a fuggire. E noi lo abbiamo aiutato".

00:50

Ignazio Cassis al microfono di Christelle Campana

TG/RSI 24.08.2021, 13:37

Tu, dunque ti sei attivato immediatamente. Qual è stata la reazione del DFAE?

"L’operazione è andata in porto. La coordinazione tra lui, noi (Philippe Blanc ed io), la direzione SSR (Mario Timbal e Gilles Marchand) e alcuni responsabili della nostra azienda a Berna, il DFAE, alcune persone legate ai servizi di sicurezza e al nostro esercito è stata ottima. Siamo molto soddisfatti. Rahmat e la sua famiglia sono al sicuro da noi. Noi abbiamo trascorso qualche notte insonne. Per lui e la sua famiglia è stata molto dura, ma come detto è finita bene".

Qual è stata la vita di Rahmat nei giorni che hanno preceduto l’arrivo all’aeroporto di Kabul?

"Non posso entrare nei dettagli perché una parte della famiglia è rimasta là. Ma è stato forse un dei momenti più duri della sua vita. Lui è venuto qui con la madre, la moglie e le due bimbe".

Con quanta ansia hai convissuto tu, Bobo?

"Tanta. Era una questione di vita o di morte e, ogni tanto, quando vedevamo che non ce la facevano a raggiungere l’aeroporto di Kabul e che tra calca e sparatorie vi erano molti morti, sopraggiungeva parecchio scoramento. Eravamo anche in parte responsabili della sua vita, visto che aveva lavorato con noi e per questo rischiava ora di essere ucciso. Al quinto giorno, devo ammettere, eravamo un po’ disperati. Poi l’ultimo tentativo è stato quello giusto. Ma lui e i suoi erano ormai al limite delle forze".

La notte scorsa Rahmat è giunto in Svizzera. Con sé ha la sua famiglia, ma… ha lasciato tutto nel suo Paese. Cosa gli riserverà il futuro?

"Rahmat ha ottenuto un visto umanitario. La procedura è lunga, il suo status definitivo dipenderà da molti fattori, in primis l’evoluzione del paese. Ma temo che la pace e la democrazia siano molto molto lontane per gli afghani. Penso che per le bimbe non sarà troppo difficile integrarsi da noi. Per lui, la moglie e la madre, questo passaggio brutale da un realtà all’altra, diverse anni luce, dovrà esser gestito con pazienza: imparare un nuova lingua, integrarsi pian piano anche professionalmente, ecc…"

m.c.

Catena della Solidarietà

La Catena della Solidarietà si è attivata per una raccolta fondi a favore della popolazione in Afghanistan, le cui necessità dal punto di vista umanitario sono state amplificate dall’ascesa al potere dei talebani. Donazioni sono possibili sul conto postale 10-15000-6 o direttamente sul sito www.catena-della-solidarietà.ch.

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