“Siamo venute qui dal primo giorno, cioè domenica. Non ci siamo sentiti ascoltati e gli scienziati non sono stati ascoltati e quindi abbiamo deciso che la nostra ultima chance è fare disobbedienza civile”. Sono parole di Sabrina e Caterina.
Sulla cinquantina la prima e attorno ai trent’anni la seconda, raccontano alla RSI le emozioni vissute in piazza, aspettando l'arrivo degli agenti antisommossa che in maniera pacifica hanno poi fatto uscire dal perimetro anche chi ha opposto resistenza.
Il loro obbiettivo è comune: “non siamo qua perché ci divertiamo a fare casino e farci portare via. Non è mai facile confrontarsi con la polizia antisommossa. Siamo qui perché siamo in una situazione talmente drammatica… Siamo molto vicini al punto del non ritorno e se lo superiamo il pianeta si surriscalderà da solo e noi non potremo fare più niente. Ci siamo veramente vicinissimi”.
Anche l'approccio è comune. “La nostra è disobbedienza civile non violenta. Cosa vuol dire? Vuol dire che ci sediamo per terra, siamo incatenati e se loro vengono facciamo – scusate il termine – il sacco di patate e ci porteranno via”. Imparare a manifestare significa anche in qualche modo imparare a resistere.
Non sono giunte sul posto impreparate. “Abbiamo fatto training che ci hanno preparato a questo momento – raccontano – siamo anche informati di come dobbiamo reagire, quali sono i nostri diritti e quali sono le conseguenze delle nostre azioni”.
Un po' di paura e di preoccupazione per le eventuali conseguenze di questo modo di protestare, ci sono: “il nervosismo c’è, però la voglia di cambiare questo sistema e più forte e quindi con strategie che permettono di calmarsi riusciamo a gestire la paura”. C’è, concludono, un obbiettivo che è molto più importante della paura: “se adesso non siamo attive i nostri figli avranno un mondo molto brutto e quindi siamo pronte a andare incontro a problemi penali”.