Ticino e Grigioni

Quando il von Mentlen era un “lager” con suore “aguzzine”

L’istituto bellinzonese sfratta i suoi “scheletri” e fa luce sui collocamenti coatti dal 1932 al 1962, tra violenze fisiche, psicologiche e anche sessuali

  • Ieri, 21:06

I soprusi all'istituto Von Mentlen

Il Quotidiano 02.10.2024, 19:00

Di: QUOT/Trefogli/RSI Info 

Oggi il von Mentlen di Bellinzona è un centro educativo moderno, dove gli ospiti minorenni - una cinquantina - godono di protezione e di un supporto. Ma non è sempre stato così. Nel secolo scorso, chi è stato costretto a frequentarlo, lo descrive come un “lager” diretto da “suore aguzzine”.

A decidere di illuminare quegli anni bui è un’indagine che lo stesso istituto ha affidato all’Università di Ginevra: il risultato nasce da una dozzina di testimonianze raccolte dal ricercatore Marco Nardone e confluite nel libro “Bisogna portare alla luce queste sofferenze”, che verrà presentato giovedì.

Esiste dal 1911 il von Mentlen di Bellinzona, nato dalla volontà dell’omonima benefattrice Valeria e gestito dalle suore della congregazione cattolica della Santa Croce di Menzingen. Era lo Stato a decidere chi internare: figli ritenuti illegittimi, perché nati da donne sole, divorziate, da famiglie povere o perché di etnia nomade. Per la società erano colpe. E la colpa andava corretta.

A scoprire il prezzo pagato per queste “colpe” è stato il ricercatore universitario Marco Nardone, che ha intervistato dodici persone, donne e uomini ultrasessantenni, ospiti dell’istituto per lo più negli anni Cinquanta. “L’educazione religiosa era molto rigida e severa. Le persone per descrivere la propria esperienza al von Mentlen parlano di prigione, di lager addirittura - racconta alla RSI lo studioso -. E parlano di disciplina militare”.

Per la prima volta queste pagine danno voce a chi aveva subito un collocamento coatto: fino agli anni Settanta, l’autorità cantonale imponeva l’internamento, incurante della volontà dei diretti interessati. “La parola d’ordine era ‘obbedisci!’”, racconta una testimone. “Mi ricordo che nei primi tempi che ero lì piangevo sempre e più piangevi più prendevi botte”, ricorda un altro internato. “Ci punivano con l’acqua gelida. Sotto la doccia o immergendoci nella vasca da bagno”. E ancora: “Mi è mancato enormemente l’affetto, le suore erano dure, rigide. Se non ubbidivi ti arrivavano le punizioni. Erano proprio delle aguzzine”.

La priorità per le suore, dice Marco Nardone, “non era il benessere dei piccoli, ma la disciplina e l’ordine. Erano tanti bambini e poche suore, senza alcun tipo di formazione per questo lavoro. La violenza era proprio una strategia per gestire questa massa di bambini”.

Sono stati i vertici del centro educativo a promuovere l’indagine sul loro passato. Per capire appunto se mai gli ospiti dell’istituzione religiosa subirono torti e ingiustizie. Undici anni fa il governo svizzero e poi anche quello ticinese avevano riabilitato, scusandosi, le persone vittime di collocamenti forzati. “Ci siamo resi conto - dice il direttore Vito Lo Russo - che non abbiamo veramente mai pensato a cosa succedeva al von Mentlen nel passato. Da lì ci siamo detti che non era possibile non andare a indagare le pratiche educative di quegli anni. Senza puntare necessariamente il dito contro qualcuno, ma per capire cosa succedeva a quel tempo”.

Era stato un libro che parlava di soprusi al von Mentlen ad attirare l’attenzione della direzione. Un libro con la testimonianza di un ex internato - pubblicato cinque anni fa da Matteo Beltrami. S’intitola “Il mio nome era 125”. Cioè il numero di guardaroba di suo padre Pierre all’istituto.

Pierre Beltrami ha avuto la forza di uscire allo scoperto. Gli altri 11 testimoni - intervistati da Marco Nardone no. Loro, uniti nel destino da una costante: la sofferenza per la violenza subita. Violenza fisica, psicologica e anche sessuale. “Avevamo sempre i pantaloni corti ed era freddo. D’inverno ci levavano i pantaloni e le mutande e ci mettevano sopra questi enormi caloriferi, a pieno regime, che ci ustionavano”, ricorda Beltrami. E ancora: “Abbiamo visto questo bambino affacciato alla finestra. Si chiamava Silvano, poteva avere 5 anni ed è caduto al suolo ed è morto. L’altra suora, quando ci hanno portati in aula, ha responsabilizzato noi perché lo abbiamo chiamato. Invece noi lo invitavamo a rientrare”.

Tante vicende simili rimaste confinate fino ad oggi dentro le mura di un centro che come altri non era soggetto al controllo istituzionale. E il cui personale non aveva alcuna formazione adeguata.

L’inchiesta dell’Università di Ginevra rientra fra le ricostruzioni storiche finanziate dal Fondo nazionale di ricerca. Il dipartimento di sociologia si è focalizzato sugli istituti religiosi di Vallese e Ticino. Sulle ingiustizie inflitte, le modalità di assistenza, la lesione dei diritti fondamentali dei bambini, ritenuti degli oggetti fino agli anni Cinquanta.

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