Capita ed è un punto preciso che cambia tutto. Per un artista è un album, un libro, un dipinto o solo una canzone o anche un ruolo in un film. Accade poche volte. Quando poi capita a tre artisti contemporaneamente come è successo alla cantante bernese Sophie Hunger, all’argoviese Dino Brandão e allo zurighese Faber nel loro ultimo “Ich Liebe Dich” beh, allora, siamo di fronte una sorta di miracolo artistico. Un’alchimia. Una rarità.
Ed è anche questo “ich Liebe Dich”. Tredici canzoni scritte a sei mani e tre voci in piena pandemia. Sei mani e tre voci diversissime fra loro ma capaci di dipingere nell’aria un affresco di sensazioni in cui se solo una delle tre venisse a mancare cadrebbe pure l’intonaco su cui si era retto fino a quel momento l’affresco.
Poi la musica, di cui Dino Brandão è il metronomo. Quel fado moderno alla Madredeus che si scorge dietro la delicatezza degli arpeggi di chitarra, i cori, e gli intervalli melodici nei brani “Ich liebe Dich, Faber” o “Ich liebe Dich, Sophie”, a cui si aggiunge la sperimentazione di un Caetano Veloso soprattutto in alcuni brani come “Euse Rosegarte” e “Ich liebe Dich, Dino”. Insomma, una buona dose di musicalità lusitana di cui Dino Brandão è il mediatore.
Ma poi c’è l’italianità di Faber che con “Mega Happy”, “Hoffnigslos Hoffnigslos” o “E Nacht a de Langstrass” porta con sé quel che resta di Fred Buscaglione. Per non dire della potenza di Sophie Hunger in “Eis hämmer immer no gno”, “Dr Hunger wird schlimmer” o nella commovente, centrale, “Putsch”.
Voci, strumenti e sensazioni che confluiscono nel brano “Wäge dem” e infine, magicamente, nel singolo “Derfi di Hebe” in cui l’arpeggio iniziale sembra citare per qualche secondo “La domenica delle salme” di Fabrizio De André, artista da cui Julian Pollina – sarà solo un caso? – ha mutuato il nome d’arte “Faber”.
“Ich Liebe Dich” è un piccolo gioiello che ci regala un manifesto d’amore in svizzero tedesco, ma anche verso lo svizzero tedesco, dove il dialetto si emancipa (finalmente) e diventa lingua universale come le altre riempiendo le proprie sonorità di senso, senza più ritrosie o vergogna. Un regalo al passo con l’esprit du temps, insomma, per una generazione a tratti triste, colpita dalla pandemia negli anni più belli, ma conscia di ciò che alla fine conta davvero: l’amore, in tutte le sue forme, orientamenti ed espressioni.