Quasi 9000 morti, 18’000 feriti e 1 milione di sfollati. È il bilancio del terremoto di magnitudo 7,9° che il 25 aprile dello scorso anno colpì il Nepal, terra della catena montuosa dell’Himalaya con il suo Everest. A quella tremenda scossa ne seguì un’altra, il 12 maggio, che distrusse la capitale Kathmandu. Oltre 600’000 case furono rase al suolo e quasi 300’000 vennero danneggiate, e quasi 1/3 della popolazione soffrì e ancora soffre delle conseguenze del terremoto.
I donatori internazionali hanno messo a disposizione 4 miliardi di dollari per la ricostruzione ma l’organismo nepalese incaricato di gestire l’operazione è stato attivato solo in gennaio. Il contributo promesso di 2000 dollari a famiglia per sistemare le case, finora è rimasto nelle casseforti e per di più non sono state nemmeno promulgate le norme promesse per la ricostruzione. Il governo è ancora bloccato da una crisi istituzionale e amministrativa scoppiata poco dopo il sisma. L’approvazione della nuova Costituzione democratica, è stata accompagnata da scontri violenti con le minoranze indù, che hanno causato l’embargo di carburante e beni primari dalla vicina India con la chiusura delle frontiere e la crescita dell’inflazione.
In mezzo a tutto questo centinaia di migliaia di persone si stanno preparando a passare la loro seconda stagione dei monsoni in rifugi temporanei, mentre le organizzazioni umanitarie e lo stesso primo ministro nepalese denunciano le lungaggini burocratiche che rischiano di condurre a nuovi ritardi poco giustificabili.
A Modem ne parlano:
Tony Burgener, Direttore della Catena della Solidarietà;
Naima Chicherio, inviata RSI;
Domenico Giardini, sismologo e Professore al Politecnico federale di Zurigo;
Dipak Raj Pant, professore e Direttore - Unità di Studi Interdisciplinari per l'Economia Sostenibile Università Carlo Cattaneo;
in registrato: Giulia Vallese, ONU Kathmandu.
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