“Un’ode alle donne” (Vogue Italia)
“Pamela Anderson è una rivelazione” (BBC)
Si può apprezzare The Last Showgirl senza cadere nel tranello social dell’idealizzazione, che è proprio ciò a cui segue uno scarto narcisistico di massa in caso di scandali più o meno montati ad hoc dal mercato? Si può e forse si deve, visto che a Pamela Anderson è già successo di essere messa su un altare e poi buttata giù con violenza: lo raccontava in un bel documentario, Pamela, a love story (2023, Netflix).
La regista di The Last Showgirl è Gia Coppola. Gia sta per Gian Carla, classe 1987, figlia di Gian Carlo Coppola, morto a 22 anni in un incidente nautico pochi mesi prima della sua nascita, figlio a sua volta di Francis Ford Coppola, che non ha bisogno di presentazioni. Gia Coppola è doppiamente nipote d’arte, e nell’ultimo film l’ispirazione alla zia, Sofia Coppola, è così evidente da essere localizzata nella zona liminale tra la citazione e il personal branding di famiglia. Sceglie infatti un’estetica riconoscibile, fatta di titoli rosa, in stile coquette, lustrini, linee spesse tracciate con l’e-liner.
The Last Showgirl è basato sull’opera teatrale Body of work di Kate Gersten che, non inganni il cognome, è parente anche lei di Gia Coppola; come ci ha tenuto a specificare in un’intervista al Corriere della Sera, è sua cugina. Gersten ha collaborato anche alla sceneggiatura del film, che racconta di un gruppo di donne alle prese con la chiusura dello show, durato 30 anni, ispirato allo storico Jubilee di Las Vegas. Un mondo in via d’estinzione, quello delle 85 soubrette che si esibivano a seno nudo sul palco, coadiuvate da una troupe di 45 persone.
È un film su Las Vegas e sulle ombre dietro alle sue troppe luci. Il parallelo con la carriera della stessa Pamela Anderson è suggerito ed evidente, l’idea di un “ultimo spettacolo” in tal senso è potente (commercialmente, soprattutto) quanto quasi offensiva rispetto a Anderson stessa.
Prima di The Last Showgirl Gia Coppola ha diretto altri due lungometraggi: Palo Alto (2013, da una raccolta di racconti di James Franco, arruolato anche nel cast del film) e Mainstream (2020, tradotto come Nessuno di speciale, con Andrew Garfield e incentrato sul mondo dei social media).
È questo però che le ha fruttato dei riconoscimenti importanti, dato che è stato candidato a 2 Golden Globe e a un BAFTA. L’elemento più interessante del film è anche quello più disturbante: sembra, infatti, far interrogare su cosa sia una donna adulta, e cosa invece no.
Tutto, dalla voce praticamente in falsetto della protagonista, Shelly, nella versione originale, al suo egoismo nei confronti di un’amica e soprattutto nei confronti di sua figlia Hannah, è messo su schermo senza intenzioni di giudizio (ma, forse, neanche d’indagine).
È proprio la regista a fornire la sua chiave interpretativa, dichiarando sempre al Corriere della Sera: «Mi ha affascinato molto la domanda: Shelly è egoista? Non è egoista? A volte però bisogna essere egoisti per trovare la propria strada. Questa è la sfortunata verità. Sono riuscita a provare compassione sia per Shelly che per Hannah».
Il momento di massimo conflitto si raggiunge dopo che la figlia va a vedere per la prima volta uno spettacolo della madre. «Era per questo che mi lasciavi due ore col GameBoy in garage?» Giudica il lavoro materno e la sua voglia di mostrarsi in topless, ma soprattutto giudica il suo non esserle stata madre come lei avrebbe voluto.
E di certo Hannah nel corso del film fa il processo di crescita che le permette di accettare sua mamma così com’è, di volerle bene e di appurare che ha fatto quello che poteva. Shelly, invece, resta sostanzialmente com’è. E questo è parte del suo personaggio, anche se poteva essere indagato di più. Soprattutto nello snodo di trama in cui la vediamo rifiutare categoricamente di dare una mano a una collega in evidente stato di terrore. È realistico: le Shelly esistono. Ma raccontarle empatizzando è diverso da raccontarle giustificandole.
La scena più emozionante riguarda Jamie Lee Curtis; siamo a metà film, quando finalmente arriva la musica. Irrompe con Total Eclipse of the heart, e lei che balla, straordinaria e spontanea. È solo un corpo che si esprime, senza giudizio: da dentro a fuori e non da fuori a dentro, riporta la danza a ciò che è, non più male gaze ma emozione che ti percorre e, per questo, percorre chi ti guarda.
Il tema del lavoro, che affiora dato che si parla di uno show che chiude dopo trent’anni, è trattato in modo realistico. La showgirl più grande si ritrova a dormire in macchina per due settimane, finché finalmente Shelly non sceglie di essere sorella e non egoista, e la ospita. Sempre Shelly farà pesare a Eddie, che si occupa di gestire le luci, che mentre lei che è la star dello show deve sparire, lui passa da uno spettacolo all’altro: è rabbia di genere e di classe, ed è interessante, ricorda le riflessioni di Naomi Wolf ne Il mito della bellezza.
Le ali del costume le vengono detratte dallo stipendio, i provini non la accettano per l’età. Assistiamo a uomini né belli né sexy che però si permettono di giudicarla, di umiliarla dicendole che se ha lavorato finora non è perché sa ballare ma perché un tempo dev’essere stata, appunto, bella e sexy. Anziché rigirargli lo specchio sulla faccia (gesto considerato da alcune ancora troppo violento, perché non piace sentirsi cattive e dire a qualcuno di brutto che è brutto; non piace, neanche se lui non fa che offendere l’aspetto fisico di te che brutta non sei, tutt’altro, sei Pamela Anderson), anziché, insomma, rigirargli lo specchio sulla faccia e fargli notare che non deve osare e che uno con una faccia così può solo baciare la terra dove lei cammina, Shelley gli urla la sua vera età (ha finto di avere vent’anni in meno per il provino):
«Sono bella. Ho 57 anni e sono bella. You son of a bitch».
Ed è vero: ha 57 anni ed è bella. Nell’alveo della body positivity niente di nuovo. Più rivoluzionario sarebbe stato far uscire entrambi i personaggi dal loro delirio narcisistico: lui che non si vede brutto e che proietta sulle donne che è chiamato a giudicare la sua stessa bruttezza; lei che al massimo si vede com’è, bella, e lo urla come un’adolescente a lui che non lo riconoscerà mai, troppo intento a oggettificare le ragazze più giovani, a sentirsi una divinità super partes. Il problema è che ci vuole profondità per affrontare la superficie. E qui, in fondo, troppa profondità non c’è.

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