Quando la lasciamo fare, la natura si tira fuori da sola pian piano dal disordine in cui è finita. È la nostra inquietudine, è la nostra impazienza che rovina tutto, e gli uomini muoiono tutti quanti per via dei farmaci e non per via delle malattie.
Citazione tratta dal monologo di Beraldo, fratello del malato immaginario Argante
Andrea Chiodi ha portato in scena al LAC l’ultima opera di Molière, Il malato immaginario, tra i testi più fortunati e autobiografici del celeberrimo drammaturgo francese, di cui sono protagonisti Lucia Lavia e Tindaro Granata, insieme ad un cast di ottimi interpreti. Scritta nel 1673, anno della scomparsa del suo autore, la commedia – o meglio comédie-ballet – è un attacco ai medici, fatto che testimonia l’odio viscerale di Molière per la categoria.
Quando ci si trova di fronte alla messa in scena di testi autoriali così importanti, che hanno attraversato imperterriti secoli di storia e di arte, lo spettatore ha il dovere di chiedersi a cosa sia dovuta quella straordinaria fortuna. Certo, il nome di Molière aiuta a tessere il ragionamento soprattutto quando di questa commedia, Il malato immaginario, era il protagonista principale nelle prime rappresentazioni seicentesche. Se a questo aggiungiamo l’autobiografismo del testo molieriano e prendiamo in considerazione il fatto che Molière, alla quarta messinscena, portò con fatica a termine la sua interpretazione del malato immaginario Argante per poi morire a causa del suo grave stato di salute poche ore dopo, capiamo perché questo testo teatrale emana un’aura insolita, quasi testamentaria rispetto alla poetica del suo autore, e che ne giustifica la longevità.

La messinscena de "Il malato immaginario" di Andrea Chiodi
L’opera è senza dubbio una commedia satirica che prende di mira l’ossessione dell’essere umano di sentirsi in controllo di ciò che in realtà non può controllare: le malattie. I medici rappresentano, agli occhi di Molière non una soluzione, bensì un gruppo sociale interessato unicamente a generare profitto sulle disgrazie altrui utilizzando una terminologia criptica che fa della complessità il suo tratto distintivo, a cui le persone tuttavia si affidano ciecamente. È forse qui che il testo mostra, volutamente, i suoi limiti: i personaggi della commedia sono caricature, esasperazioni. I progressi tecnologici hanno fornito all’essere umano un modo per monitorarsi con esattezza grazie all’oggettività scientifica che i macchinari garantiscono. Le macchine, però, non sono in grado di misurare ogni cosa. Ed è in questa zona grigia che ha luogo il dramma interiore del malato immaginario Argante, la parte più interessante ed universale dell’opera di Molière.
Si tratta, però, di una lettura superficiale del testo del drammaturgo francese. Sì, perché l’autobiografismo insito in quest’opera rende la commedia drammatica, oscura. Siamo sicuri che la denuncia sociale di Molière si esaurisca nell’aspra critica alla categoria dei medici? O c’è forse qualcosa in più?
Morendo, Molière ci deve aver detto qualcosa d’essenziale, di vicinissimo a noi. Si esiste solo se si è guardati. Si muore, talvolta, per esistere.
Angela Dematté, Note di drammaturgia
È, forse, proprio questa nota drammaturgica della traduttrice del testo molieriano Angela Dematté a fornire una delle chiavi di lettura più proficue per decifrare il significato profondo dell’opera. La categoria della testimonianza, infatti, ci accompagna fin da quando siamo degli infanti e possiamo dire, spingendoci un po’ oltre, che è uno dei tratti più distintivi dell’essere umano in quanto essere sociale. La nostra identità è in mano a chi ci sta davanti. Senza l’altro, noi non siamo. C’è un bisogno esistenziale di riconoscimento che anima qualsiasi azione umana, consapevolmente o inconsapevolmente. Cosa succede quando non si è riconosciuti, quando manca il testimone? Si smette, in qualche misura, di esistere. Ecco che ci si trova ad escogitare un modo per tornare ad esistere, ed uno di questi è proprio interpretare una parte, lasciandosi vincere dal desiderio di essere notati. Una soluzione è proprio quella proposta da Molière, diventare malati, lamentarsi continuamente, chiedere mille attenzioni a chi ci sta attorno. In quel modo, si torna a toccare con mano la propria esistenza.
«Il malato immaginario arriva alla fine di un periodo complesso per Molière: come in una corsa al massacro sociale si sposa con una donna che potrebbe essere sua figlia (e tanti pensano lo sia davvero), scrive opere sempre più scomode (subendo costantemente gli strali delle categorie che prende di mira: tartufi, misantropi, avari…) ed entra in conflitto con il musicista beniamino del re, Gianbattista Lulli. In questo stato scrive per sé il personaggio di Argante, malato immaginario. Come scrive Cesare Garboli: “La malattia di Argan soccorre il malato come un sedativo. Lo soccorre nel profondo bisogno di non esistere, di addormentarsi, di assentarsi, finché tutta la vita sia risucchiata dal nulla. Se la vita è male, asserisce Argan, si può viverla solo se si è ‘malati’, o si è irresponsabili e ciechi. Argan difende un asilo innocente, il suo diritto all’infanzia.” Mi sembra che l’autofiction in cui tutti noi esseri umani siamo caduti da qualche tempo, questo nostro rappresentarci continuamente anche nei nostri malanni più intimi, sia molto simile alla malattia di Argante/Molière. Vogliamo mostrarci malati, immolarci, morire in scena per trovare disperatamente qualcuno che ci accudisca, compatisca, perfino che ci derida o che ci odi: cerchiamo un qualsiasi sguardo genitoriale che ci permetta di esistere. Il re Luigi/padre sta già sostituendo Molière con un nuovo musicista/figlio, più furbo, leggero e di moda e – paradossale – con il suo stesso nome: Gianbattista. Molière non sarà più il commediante del re».
Angela Dematté, Note di drammaturgia
Ma di chi è il problema? È di coloro che “si fingono malati” per essere notati oppure della società che decide arbitrariamente di guardare da un’altra parte? Uno dei temi della commedia, e un’altra delle sue critiche sociali, è infatti la tendenza del pubblico a cercare nell’arte intrattenimento piuttosto che riflessione e introspezione. “Molière è morto! La commedia è morta!”, queste le parole di Argante, controfigura di Molière, nella seconda parte dello spettacolo. Da qui si attiva un meccanismo di autodistruzione spirituale che porta l’essere umano a rinunciare a se medesimo per intraprendere una disperata ricerca di soluzioni diverse per continuare ad esistere, spesso tragiche ma, nella loro tragicità, profondamente comiche. L’ipocondria è una delle molte strategie, sicuramente quella che si presta meglio alla risata. Molière lo sapeva bene, Andrea Chiodi l’ha magistralmente intuito: la risata diventa denuncia, dramma e manifestazione di una crisi interiore senza tempo che in pochi hanno il coraggio di affrontare.
Con questo lavoro ho cercato di mettere in scena questo grido disperato, il grido di un artista, la domanda di chi cerca di far capire a chi parla la sua arte, il suo teatro, fino a morirci dentro, fino a decidere di essere malato per proteggersi dalla durezza della realtà. L’abbiamo fatto con il testo integrale e fedele, con la sola aggiunta della supplica di Molière al Re a cui domanda: “Allora ditemi sinceramente, mio sovrano Signore, se volete che io scriva ancora delle commedie. Io non voglio dar fastidio a nessuno. Preferirei morire piuttosto che pensare che il teatro di Molière disgusta tanto da detestare il solo sentirlo nominare”.
Andrea Chiodi, Note di regia

Ipocondria, tra teatro e cinema
Alphaville 22.01.2025, 12:35
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