Teatro

Barba, il grande riformatore

Alle radici dell’Odin, uno dei movimenti teatrali più importanti di sempre

  • 22.03.2024, 10:43
  • 22.03.2024, 11:48
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Eugenio Barba, Holstebro

  • Rina Skeel
Di: Valentina Grignoli 

L’Odin Teatret di Eugenio Barba compie 60 anni, e ha deciso di festeggiare per un anno intero. Dalle Olimpiadi del teatro di Budabest a maggio 2023 fino al mese di permanenza al Teatro India di Roma, maggio 2024. In mezzo, in questo tour mondiale, Sudamerica, Asia e Africa. Un giro che significa andare a ritrovare compagnie incontrate lungo il cammino di una vita, realtà conosciute e vissute negli anni, parti di sé. Tra queste, tra l’altro, anche il Teatro delle Radici di Lugano, che ha ospitato Eugenio Barba per un evento pubblico nel mese di marzo.

Sessant’anni non sono pochi, nel frattempo il mondo è cambiato. La rivoluzione di questo teatro, che pone la ricerca, la scoperta e il contatto con l’altro al centro, e che attraverso training fisici intensi e volti al continuo perfezionamento riesce a far mettere veramente in ascolto gli attori, è tanto grande quanto incredibile. È il 1964, Norvegia, un giovane originario di Brindisi, Eugenio Barba, dopo essere stato rifiutato dalla Scuola Teatrale di Oslo per la seconda volta, e dopo essersi avvicinato in Polonia al lavoro di un altro Grande Maestro del secolo scorso, Jerzy Grotowski, fonda il suo teatro dal nome così evocativo, Odin.

Facciamo un passo indietro lungo 60 anni, per conscere le origini di questa esperienza che avrebbe segnato in modo irreversibile l’evoluzione del teatro novecentesco.

Il 1964 fu un anno incredibile. A pochi passi dal sessantotto, era sui palcoscenici che si iniziavano a cogliere le prime avvisaglie di una rottura.

Sono gli anni del boom economico in Europa, e al Nord la vita artistica e quella tecnologica sembrano esplodere. A Stoccolma arrivano i primi happening dagli Stati Uniti (distruzione del significato e eloquenza dell’evento puro), c’è Ingmar Bergman che attraverso il suo cinema rivela al mondo una cultura scandinava capace di diventare punto di riferimento; Peter Weiss – vissuto a lungo proprio a Stoccolma - scrive in quegli anni il testo che lo porterà al successo, l’Istruttoria. I temi dell’assurdo quotidiano, coi quali il pubblico teatrale aveva imparato a fare i conti lasciano il passo a quelli della follia, dell’eccesso, della violenza delle istituzioni.

A poco a poco, senza che molti se ne accorgano, succede qualcosa. Scompare la chiarezza ideologica del teatro di Brecht e quella paradossale del pessimismo di Beckett e Ionesco, grandi innovatori degli anni ’50. Ma anche le grandi istituzioni vacillano, fino ad allora il teatro era pensato come rappresentazione e analisi dei grandi conflitti storici e di classe, un teatro che era anche servizio culturale pubblico. Ora il pubblico è in qualche modo chiamato a far parte della storia.

Sempre nel 1964 in Europa arriva il Living theatre: Julian Beck e Judith Malina sognano una società senza denaro. Alla fine di quell’anno il Living presenterà a Parigi uno spettacolo rimasto impresso nella storia, Mysteries and smaller Pieces: non c’è testo, solo espressione fisica. È in questo periodo che circolano le prime notizie relative al lavoro di Grotowski, dove la scena è abolita, si recita in tutta la sala, dove prende vita un campo di sterminio nazista (Akropolis) o un ospedale psichiatrico.

Non si cerca più il grande teatro della città, ma si lavora ai margini. Il teatro non è più in città, spesso è contro la città, come nel caso del Living che si attornierà sempre più non solo d’intellettuali d’avanguardia ma di giovani disobbidienti civili.

Predicono il ’68 anche una serie di spettacoli in opposizione ai ‘classici’, considerati feticci di una cultura da contraddire e distruggere; spettacoli in cui gli attori affrontano e si distanziano dagli agli spettatori, visti come i rappresentanti di una società borghese. Peter Handke (Premio Nobel per la letteratura 2019) scriverà nel 1966 Insulti al pubblico.

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Eugenio Barba e i 60 anni dell’Odin

Alphaville 12.03.2024, 12:35

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  • Enrico Bianda

Oslo, 1964

Torniamo in scandinavia, andiamo a Oslo, arriviamo alla nostra storia. C’è un piccolo gruppo di norvegesi che si raduna intorno a un giovane italiano di 27 anni, tutti sembrano voler fare teatro solo per sé stessi. Il giovane è Eugenio Barba, e chiamerà il suo teatro Odin, da Odino: una felice casualità perché in realtà quello è il nome della strada dove sorge. Ma Odino è anche Wotan, dio della mitologia nordica della saggezza, della poesia, della magia e della guerra.

Un teatro senza casa e senza sovvenzioni, che non si rivolge a un pubblico preciso. Vogliono diventare attori, ma questa via sembra per loro lontanissima. Barba li ha riuniti chiedendo alla Scuola di Teatro di Oslo la lista dei candidati rifiutati. Lavorano di giorno per guadagnarsi da vivere e la sera si allenano in locali provvisori. Sono pochi e all’inizio è dura, vivono davvero ai margini, e quel che fanno sembra a molti inutile. Non è riconoscibile con nessuna scuola, ma si ispira a Stanislavskij, Mejerchol’d. È teatro fisico, basato su un traning oggi riconosciuto e utilizzato da moltissime scuole teatrali.

È il 1964 e pochissimi conoscono l’esistenza di Grotowski, del Living, di Peter Brook (tutti nomi oggi entrati a largo titolo nella storia teatrale come Grandi Maestri). Si viveva allora in un’epoca in cui la ricerca teatrale era per lo più affidata alla regia e al lavoro drammaturgico. Un attore che si allenava ogni giorno e il cui lavoro non si limitava alle prove degli spettacoli era considerato decisamente bizzarro.

Ma poi accade qualcosa, nel 1966 al Festival del Theatre des Nations esplode il fenomeno Grotowski con Il principe costante, che indicherà un modo di fare teatro che tutti impareremo a conoscere. Ma mentre da una parte arriva la consacrazione, l’Odin è costretto a lasciare la Norvegia e stabilirsi in Danimarca, in una cittadina di 2’000 abitanti a nord est chiamata Hostelbro.

Un curiosità. Nonostante si parli sempre di Kaspariana (dal 1966 al 1969 per soli 60 spettatori alla volta), il primo spettacolo dell’Odin è Ornitofilene (Gli amici degli uccelli) e data 1965, quando ancora il gruppo era a Oslo. Si basa su un testo di Jens Björneboe e racconta di come in un piccolo villaggio d’Europa, un gruppo di turisti abbia deciso di creare un complesso alberghiero, per liberare la popolazione autoctona dalla miseria. Gli stranieri pongono però una condizione: i cacciatori dovranno rinunciare alla caccia di uccelli. Ma scopriamo che una ventina d’anni prima nello stesso villaggio, i medesimi turisti erano arrivati in uniforme nazista e avevano saccheggiato, torturato e ucciso la popolazione. Oggi sono amici degli uccelli, mentre i cacciatori sono i condannati e i torturati di ieri. In questo spettacolo, che non si svolge su un palcoscenico, gli attori dell’Odin sono seduti e agiscono tra gli spettatori. Confondono le posizioni, meglio dimenticare gli orrori del passato o restare fedeli ai propri ideali? Lo spettacolo presenta il rovescio di ogni situazione. E la rottura di un equilibrio emblematica.

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I 60 anni straordinariamente vagabondi dell’Odin Teatret

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  • Cristina Artoni

E poi…

A Holstelbro l’Odin diventa teatro laboratorio, e più che istituto di ricerca è riconosciuto dalla comunità locale per le sue attività di diffusione rivolte all’esterno. Attività che continueranno negli anni ovunque il teatro si sposti. Organizza seminari di teatro europeo e orientale (Barba viaggiava moltissimo in Asia), pubblica libri, riviste teoriche e tecniche di teatro. Lo sguardo è ampio, aperto, e abbraccia il mondo intero, dalla Commedia dell’Arte al Teatro Nô, da Gordon Craig a Etienne Decroux, e poi seminari con Barrault, Lecoq, Dario Fo, Julian Beck e Judith Malina, Luca Ronconi e ovviamente Grotowski al quale Barba rimane sempre legato, pubblicando con le edizioni Odin Teatret “Verso un teatro povero” del 1968.

Questa apertura, l’Odin la manterrà per tutta la sua storia, i festeggiamenti per il sessantesimo parlano da sé. Una storia costellata di viaggi, conoscenze, scoperte e riscoperte. Un teatro che va incontro all’altro, che si interessa soprattutto ai margini delle città, ai paesi discosti, che entra a contatto con la popolazione, con le origini della civiltà, tribale. Un teatro che include e va alla sorgente. Un teatro politico dove c’è azione, potere, dove il lucido pessimismo non smette mai di rifiutare la malvagità e pretendere la verità. I lavori dell’Odin hanno saputo introiettare dentro di sé lo spirito della contemporaneità, ovunque si trovasse la compagnia, rivitalizzandolo. Si parte in tournée ma quel che conta di più è l’incontro con l’altro, i seminari, i contatti umani, il lavoro insieme.

Negli anni settanta l’Odin partecipa a convegni internazionali e incontri di teatri di gruppo, mentre all’inizio degli anni orttanta Barba inizia un lungo lavoro di riflessione antropologica, convocando la prima sessione dell’International School of Theatre Anthropology. È l’inizio anche di una diaspora che vede gli attori dell’Odin allontanarsi da Hostelbro per rompere con la monotonia del modello teatrale e culturale che avevano fin’ora imparato in Occidente: partono per Asia, India, Brasile, Sud Italia alla ricerca di nuovi modi di creare. Quello che iteressa al gruppo è la costante ricerca per una ricomposizione di elementi sempre nuovi, frammenti autobiografici, tracce del passato. Partire, raccogliere e tornare con nuovi materiali elaborati dallo scambio, il baratto.

Uno dei principi dell’Antropologia Teatrale di Barba è l’alterazione dell’equilibrio, per costruire un ritmo, un pensiero, trasformando nel trainig esercizi fisici in esercizi spirituali.

“Se la memoria è conoscenza, allora io so che il mio viaggio ha attraversato diverse culture” racconta Barba al principio della sua Canoa di carta. Il libro è scritto nel 1993 ed è una sorta di summa delle proprie esperienze europee e asiatiche dalle quali prendono via i principi alla base dell’arte dell’attore e del danzatore. Un libro guida per molti, che ha mostrato la profondità dell’antropologia teatrale e la necessità di una maggiore connessione spirituale con sé e con il mondo, continuando a produrre nuovi significati. Sempre nella Canoa: “L’importanza dei riformatori sta nel soffiare valori nuovi nel guscio vuoto del teatro. Questi valori hanno le loro radici nella transizione, rifiutano lo spirito del tempo e non si lasciano possedere dalle generazioni future. Dalla loro scuola si può solo apprendere a essere uomini e donne della transizione che inventano il valore personale del proprio teatro”.

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L'espressione teatrale secondo Eugenio Barba

RSI Cultura 09.08.1989, 15:53

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