Arte

Bice Curiger

L’arte della cura d’arte

  • 16 dicembre 2023, 13:38
02:49

Bice Curiger

RSI Cultura 18.10.2023, 21:55

Di: Alessandro Chiara 

La sua casa di Giornico è una casa discosta ed elegante – si vede la mano del padre architetto – circondata dalle vigne. Alle sue spalle la montagna incombente e minacciosa, come sembrano a volte quelle delle valli ticinesi strette strette.

Bice Curiger ci accoglie con un’affabilità del tutto naturale nel suo soggiorno, uno spazio con un soppalco e un affaccio sui tralci. Non diresti mai di avere davanti una delle più influenti curatrici contemporanee d’arte. O forse chissà io che mi aspettavo. La giornata è nuvolosa, ma più che la pioggia temiamo l’andirivieni del sole, una vera tortura per cameramen e videomaker alla ricerca dell’esposizione perfetta.

Ci accomodiamo allora in soggiorno, sistemiamo le poltrone, spostiamo il tavolo. Il cane di Bice Curiger si avvicina a noi ma poi si allontana lamentoso quando capisce che per un po’ lo priveremo della sua padrona (salvo entrare in campo ogni tanto durante l’intervista!). Per un bel po’: Bice Curiger ha tanto da raccontare. E noi tanto da chiederle: sul suo percorso, sul suo modo di intendere l’arte, sulle sue avventure curatoriali ed editoriali.

“Negli anni ‘60, quando io avevo 14-15 anni, ho visto, in una rivista d’architettura di mio padre, un articolo sulla Pop Art. Per me è stato un colpo di freschezza, vedere queste cose colorate che avevano a che fare col nostro quotidiano. Anche questa è arte, mi sono detta, e non solo quelle cose impolverate che piacevano ai vecchietti o ai nostri maestri”.

Il suo amore per le avanguardie artistiche è iniziato allora.

“Tutto questo mi ha ispirato molto. Anche la musica pop che io ascoltavo è diventata parte della cultura di massa del dopoguerra. Una cultura che ha portato tanta intelligenza”

L’intelligenza della democratizzazione. Per questo Bice Curiger storce il naso quando pensa a cosa l’arte sia diventata oggi: uno strumento considerato appannaggio di una élite, di cui ora lei stessa fa parte. “Che tristezza!” - ammette sconsolata - “non si dà più valore alla produzione artistica e alle persone che riflettono sulla produzione artistica, ma si guarda solo al prezzo”.

È stato questo il prezzo della democratizzazione. E i media ne sono stati complici – la incalzo io, pensando ai miei anni al Telegiornale e alle volte in cui l’arte arrivava in prima serata solo attraverso la bolla dorata dell’asta milionaria.

“E dopo cosa facciamo?! Dobbiamo anche investire un po’ di tempo! Se voglio capire un libro, devo anche investire del tempo per leggerlo!”

Come si può capire l’arte, senza dedicarle del tempo? Dopotutto era quello che faceva soffrire Bice Curiger già anni addietro, quando – giovane critica del Tages-Anzeiger – sentiva lo spazio del quotidiano cartaceo troppo stretto per poter parlare di arte come lei avrebbe voluto. Da lì l’idea di fondare all’inizio degli anni ‘80 Parkett, una rivista – anzi un vero e proprio libro in due lingue (inglese e tedesco) –  attraverso cui essere vicini all’arte, alla sua creazione.

“Non avevamo staff writers, ma lavoravamo con i critici più competenti. Non volevamo essere uno strumento di informazione ‘veloce’, volevamo essere lenti”. E quando si va lentamente, si vedono cose che altrimenti sfuggirebbero. Nelle sue 101 pubblicazioni (che potete trovare digitalizzate qui: https://www.e-periodica.ch/digbib/volumes?UID=ptt-001), Parkett ha ospitato lavori di artisti già noti – Gerhard Richter, l’ultimo lavoro di Andy Warhol prima della morte, una foto in cui venivamo riprodotti scheletri umani – o ancora emergenti e giovani sconosciuti.

“C’era questo entusiasmo che gli artisti mostravano per la possibilità di collaborare con noi”. E lo facevano in tanti modi: “Brice Marden ha voluto realizzare un’opera per noi (un’incisione piegata e allegata alla rivista), dandoci carta bianca su tutto il resto, altri, come Thomas Hirschhorn, volevano i testi e poi occuparsi anche del layout e della tipografia... Era davvero individuale il modo in cui ciascuno collaborava”.

Oggi Bice Curiger mette la sua esperienza al servizio del Museo della Fondazione Vincent Van Gogh di Arles: “Ho detto subito sì a questa opportunità, anche se onestamente non avevo mai pensato troppo a Van Gogh prima. Ma ho capito che era qualcosa da reinventare”.

La cultura di massa può essere intelligente, ma può anche distruggere. E lo ha fatto con Van Gogh, “hanno stampato le sue opere sugli ombrelli... forse anche sulla carta igienica”. L’arte curatoriale di Bice Curiger è esemplificata dalla mostra di Arles dedicata al fotografo ticinese Roberto Donetta: “Aveva sette bambini, ma tutti i suoi soldi andavano alla fotografia. Era un venditore di semenze, però nel suo carretto c’erano sempre uno stativo e la macchina fotografica. Non aveva i soldi per permettersi uno studio e dunque creava tutte le sue composizioni all’esterno. È questa bellezza che vedo anche nelle opere di Van Gogh, sempre di fuori, alla ricerca di un’unità con l’universo”.

Ecco, Bice Curiger all’opera: uno sguardo teso a ricostruire ogni volta quel senso di meraviglia e di ispirazione che fu per lei l’avanguardia artistica degli anni ‘60, in un continuo recupero del dialogo tra periodi artistici diversi e tra forme d’arte diverse.

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