In questa estate appena iniziata, si è aperta tinteggiata di verde l’edizione 2023 della Biennale Teatro di Venezia (dal 15 giugno al 1 luglio). Giunti alla loro terza edizione, i direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte portano il pubblico a Emerald City, la città dei prodigi del paese di Oz, invitandolo a riscoprire meraviglia e stupore, ingredienti essenziali del teatro spesso perduti per strada. La direzione artistica dura tre anni, prima di loro il regista Antonio Latella, poi chissà. In programma personalità celebri e paradigmatiche dell’universo teatrale europeo (Armando Punzo, Romeo Castellucci, FC Bergman, Andresson e Nikitin) accanto a nuovissime generazioni; tre bandi College, Leoni d’oro e d’argento, le Masterclass, per due settimane di intensa vita teatrale tra via Garibaldi, l’unica via di Venezia, l’Arsenale, le Tese, e il più storico Teatro Goldoni. Vivere la Biennale treatro significa immergersi completamente in un mondo tra meraviglia e finzione, analisi e possibilità, realtà e riflessione. Vivere il teatro come reale specchio insomma, dalle lenti personalizzate di volta in volta, del mondo e della società in cui siamo sommersi.
Come lavora un direttore artistico di una simile kermesse? Cosa ci dobbiamo aspettare in Laguna quest’anno? Cosa accade al teatro contemporaneo? Questi alcuni spunti…
Stefano Ricci, dopo Blue, Rot, ora è il turno di Emerald, il verde, Emerald City e il Mago di Oz, perché?
A inizio mandato, tre anni fa, è stato suggerito di trovare un percorso. Il progetto è quindi legato alle nuances di colore, declinato attraverso il colore emotivo, rappresentativo dello stato vitale del teatro italiano e planetario. Il senso del verde è legato al rigoglio. Un rigoglio non soltanto floreale ma che riguarda una rinascita, quasi morale. Si è perso di vista, a causa della nostra storia mondiale, attarverso la pandemia e quindi di conseguenza la chiusura dei teatri, il senso primigenio del fare teatro. Si è smarrita, insomma, quella figura morale che è il regista e il suo significato costruttivo. Il teatro è luogo di spunti di riflessione per comprendere la società, capire dove stiamo andando.
A proposito di pandemia, non si può oggi non prescindere dal parlare della riapertura dei teatri e a quello che ha portato.
Dopo la riapertura dei teatri si sperava molto in una rinascita, ma non è stato così. La chiusura aveva fiaccato molto anche gli intenti primi del rito. Abbiamo assistito a un riavvio restaurando stilemi e modalità vicini all’intrattenimento, senza accenni a un tentativo di riallacciare lo spettacolo al proprio percorso, al proprio vissuto, senza la possibilità di interagire con l’ambiente circostante e il dubbio.
In questo senso cosa porta l’edizione Emerald di Biennale Teatro?
In questa edizione si tenta di indicare una possibilità di recupero, di ripresa, di far tornare il teatro al centro dell’esistenza non soltanto di chi questo lavoro lo fa tutti i giorni, ma anche del pubblico. Una possibilità insomma, e qui entra in gioco Emerald. Come Doroty Gale, la protagonista del Mago di Oz. Nel film di Victor Fleming la protagonista viene lanciata in uno spazio dove poter essere sé stessa, dove andare oltre quei limiti che un luogo e un’educazione ti impongono, dove ha la possibilità di astrarsi, diventare altro, diventare la forma migliore di sé. Il teatro può fare questo, anche al pubblico: pone interrogativi, aiuta a comprendere dove ci siamo fermati, i margini da superare. Immaginiamolo come un territorio di indicazioni, un sentiero verde che ci indica soprattutto una serie di artisti completamente differenti tra loro per grammatiche, ma fondamentalmente uniti dalla stessa istanza: riflettere il distillato della propria esistenza e restituirlo attraverso una propria creazione. Un monito, una costruzione, la possibilità di rigoglio, appunto.
Un esempio?
Il riconoscimento del Leone alla carriera è rappresentativo. Armando Punzo utilizza, attraversa, cerca la poesia in luoghi più sospetti, meno frequentati. Attraverso la forza e la possibilità, anche con attori non professionisti, individui, persone, costruire così un percorso poetico, un’utopia. Abbiamo smarrito e dobbiamo riedificare il progetto dell’essere in vita.
Essere in vita è quindi un’utopia oggi?
Stiamo sopravvivendo, non riusciamo più a diventare il centro della nostra esistenza, a capire come è connessa a quella degli altri.
Svelare il collante, il mistero, la meraviglia, c’è bisogno di questo! Non riusciamo più a renderci conto del lavoro che abbiamo (il teatro n.d.r.), e la possibilità, con questa pratica, di sprigionare meraviglia nella nostra esistenza.
Che risposte può dare il teatro, in questo senso?
Ognuno deve trovarle secondo il proprio tragitto: il teatro può indicare una possibilità, la storia personale di ognuno di noi è diversa. Può svelare la possibilità di attivare dei meccanismi.
Quali tendenze principali del teatro europeo vedremo a Venezia quest’anno?
Ci sono diverse tendenze, dal teatro palestinese di Bashar Murkus a quello svizzero di Boris Nikitin, o Mattias Andersson per la Svezia, tra gli altri. Sono grammatiche completamente diverse! Con il suo Kashabi Ensemble Murkus propone un linguaggio performativo, sensuale, basato non solo sulla drammaturgia scritta, ma anche sul suono, su immagini visive sconvolgenti, provocatorie allusioni intertestuali alla drammaturgia canonica e su gesti e movimenti corporei. Cosa possiamo dire degi altri due?“Nikitin propone una drammaturgia scritta, una grammatica più classica, e Andersson è un mondo a parte. Il testo viene elaborato partendo dall’improvvisazione degli attori. Ognuno di loro porta un mondo diverso, ma in tutti scorgiamo l’esigenza di comprendere questo tempo che muta, e noi con lui. Ci lasciamo assorbire da quelli che sono gli interrogativi. Che ci stanno intorno, che incontriamo. E quindi possiamo attraversarli, filtrarli, restituendo questo momento storico in cui purtroppo l’aspetto culturale è diventato accessorio. Va restituita la valenza principale: è attraverso la cultura che una società si evolve, non deprivandola ai minimi termini. Restituire l’ascolto tra le persone, restituire l’empatia. Cerco di fare questo, in quanto direttore artistico, nel grande/piccolo di una manifestazione culturale come quella di Biennale.
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Modem 05.04.2018, 08:20
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Entrando nel vivo della manifestazione, Gianni Forte, è peculiare in Biennale Teatro, accanto alla mostra di esiti, la coltivazione di processi creativi. Parliamo di Biennale College quindi, e di quel che di anno in anno porta al Festival.
Innanzitutto quest’anno la rivoluzione è dirompente: i testi dei vincitori del Bando College Autori 2022 saranno co-prodotti da Biennale Teatro e diverse strutture teatrali. Due giovani autori Tolja Djokovic e la regia di Fabiana Iacozzilli con la prima assoluta En Abyme (co-prodotto anche dal LAC e in cartellone per la prossima stagione n.d.r.), e Giacomo Garaffoni e la regia di Federica Rosellini con un’altra prima assoluta, Veronica. Due pièces che creeranno una sorta di spazio di visione in cui è ancora possibile aprire porte inconsuete.
Si sposano quindi molto bene con il tema della Biennale di quest’anno.
Sì, Emerald. Verde smeraldo come luogo della coscienza, luogo di rigenerazione, di metamorfosi, rinascita, rivitalizzazione, per poter rielaborare le nostre esperienze e arricchirci. Quello che facciamo con i tre Bandi College è assumerci il rischio dell’avventura nell’ignoto. Prestare orecchio all’inaudito, stimolare l’inedito e abbracciare finalmente lo straordinario. Queste sono alcune delle missioni che un direttore artistico dovrebbe portare avanti. Non solo il Festival come luogo per "scopritori-rabdomanti" attraverso un instancabile lavoro di scouting ma anche "guida" e "sostegno" per le giovani creazioni di questi "tessitori di bellezza" o "mercanti di sogni" che vanno sostenuti per uscire dall’invisibilità e precarietà, e dare all’artista e alla sua compagnia la possibilità di cercare e ricercare, edificando uno spazio di accoglienza e di scambio: una sorta di serra green house per far germogliare in autonomia, per rafforzare un proprio personale vocabolario artistico, e fare in modo che ci si allontani il più possibile dal mainstream della cultura.
Chi troviamo tra i vincitori dei bandi?
Per quanto riguarda il Bando College Autori, i vincitori che presentano le loro mise en lecture in questa edizione sono Carolina Balucani con Addormentate, e Stefano Fortin con Cenere. Le regie sono state assegnate a Fabrizio Arcuri e Giorgina Pi, registi consolidati e di grande valore. Poi c’è anche il Bando College Performance site specific, Gaetano Palermo con Swan e Morana Novosel con Fluid Horizons. Due performances che saranno realizzate all’aperto.
Che importanza hanno queste performance?
Riprendiamo il concetto di essere noi artisti/performer ad andare nei Campi veneziani a ricevere e accogliere il pubblico. In Via Garibaldi, Gaetano Palermo presenterà Swan/Il Cigno, una performance rapsodica dove l’uso della parola viene eliminato elaborando così una personalissima partitura di segni che creeranno nello spettatore un disagio e la sensazione di un pericolo incombente. "Il Cigno" raffigura ed è metafora della nostra condizione di noi esseri umani, "Cigni in esilio", delimitati in un cielo straniero.
Morana Novosel, invece, in Campo Sant’Agnese, propone una performance installativa. Non c’è la presenza fisica di un performer ma sarà lo spettatore stesso che diventerà performer e regista del lavoro, sceglierà gli eventi e darà loro un suo personale significato.
E per la regia?
Abbiamo un giovane vincitore del Bando Regia, Valerio Leoni, con Cuspidi. La sua traiettoria artistica è molto interessante perché si allontana da un percorso visivamente e linguisticamente realistico. Dirotta il suo lavoro e la sua indagine, destabilizza il pubblico con tonalità visionarie ed emotive, riportandoci ad un paesaggio mentale alla maniera di Magritte.
Si sente spesso parlare di questa rottura delle barriere tra autori, registi e attori, di una commistione di professionalità, uno sconfinamento tra maestranze. Questo può portare a figure più ibride, non è così?
Personalmente non ho mai percepito in maniera così netta la suddivisione. Credo che le professionalità si possano incastrare l'una nell'altra; ogni percorso porta a guardare e ad elaborare un paesaggio più profondo che è quello dell’anima per sondare i nostri limiti e re/inventare la nostra esistenza togliendole quella patina grigiastra della quotidianità, dandole un tocco più raggiante, malioso, immaginistico. Questo non potrà che farci bene, perché rispecchia e simboleggia il futuro. Provo un enorme rispetto per il passato e i Maestri che ci hanno preceduto. Ma fortunatamente si fanno anche grandi passi in avanti. Io credo che il teatro si sta risvegliando, che la "primavera" stia tornando; attraverso uno scarto, una frattura, una crepa nello sguardo razionale, grazie al suo "vigore immaginativo", il teatro stimola la fantasia, la poesia, il prodigio, la meraviglia (che sono i temi di questa 51 edizione di Biennale Teatro) nello spettatore oggigiorno incancrenito e sollecitato sempre più dall'uso passivo della tecnologia digitale.
Il teatro sopravvive.
Sì, va avanti da millenni ed è ancora attualissimo, occupando un posto di primissimo piano nel servizio pubblico.