Arte

Bona de Mandiargues, artista conturbante e visionaria

Con i suoi dipinti e assemblage ha dato vita a un universo fantastico e talvolta indecifrabile, abitato da figure metamorfiche e misteriose

  • 18 giugno, 07:54
Bona de Mandiargues, La mia mano, 1992. © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna.jpg

Bona de Mandiargues, La mia mano, 1992

  • © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna
Di: Francesca Cogoni

«Tale è il mondo della nostra pittrice, […] mondo poetico che fugge il più possibile lontano da un mondo troppo umano, senza tuttavia negarlo.» Così il pittore Gino Severini presentava nel 1954 a Roma una delle prime mostre personali della giovane collega Bona de Mandiargues. Artista conturbante e visionaria, Bona ‒ che firmava le sue opere semplicemente con questo nome gentile e augurale ‒ ha attraversato il Novecento dando forma per tutta la sua vita a questo peculiare “mondo poetico”: un universo fantastico e talvolta indecifrabile, abitato da figure metamorfiche e misteriose.

Forse è anche per il suo rifuggire da un “mondo troppo umano” ‒ e di certo troppo conformista e ingessato per lei ‒ che per anni Bona de Mandiargues è rimasta nell’ombra. Fortunatamente, però, in tempi recenti la sua opera è stata riscoperta. Ciò è avvenuto dapprima con la bella mostra “Bona de Mandiargues. Rifare il mondo”, tenutasi presso il Museo Nivola di Orani (NU) fino allo scorso 3 marzo, e successivamente con la presenza dell’artista nella mostra principale dell’attuale Biennale Arte curata da Adriano Pedrosa, intitolata “Stranieri Ovunque / Foreigners Everywhere”. Del resto, la vicenda biografica e artistica di Bona è perfettamente in linea con il tema della rassegna lagunare, ovvero l’estraneità intesa in senso lato, come condizione che accomuna stranieri, immigrati, esiliati e rifugiati, ma anche outsider ed emarginati. Bona de Mandiargues non era soltanto un’italiana emigrata a Parigi, ma anche e soprattutto un’artista per sua indole aliena da certe etichette e correnti. «La mia ricerca è alchemica – affermava – voglio fare dell’oro a partire dagli escrementi. […] Rifaccio il mondo: là sono altrove, vedo le cose da più lontano.» È lo statement di una donna consapevole della propria forza creativa e desiderosa di preservare la propria unicità, il proprio sguardo “forestiero”.

Bona de Mandiargues, La donna montagna, 1991. © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna.jpg

Bona de Mandiargues, La donna montagna, 1991

  • © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Oggi, finalmente, Bona non è più vista soltanto come la “nipote di” Filippo de Pisis o la “moglie del” romanziere e saggista francese André Pieyre de Mandiargues, ma come un’artista carismatica e audace, meritevole di essere conosciuta più a fondo. La sua recente riscoperta è analoga a quella di altre artiste affini per attitudine, come Leonora Carrington (che sarà omaggiata da una grande mostra a Milano nel 2025), Dorothea Tanning, Dora Maar o Leonor Fini.

Bona Tibertelli, questo il suo nome da nubile, nasce a Roma nel 1926 da madre veneziana e padre ferrarese. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte “A. Venturi” di Modena, raggiunge lo zio Filippo de Pisis a Venezia. Nella città lagunare inizia a frequentare gli ambienti artistici e intellettuali, e spesso viaggia con lo zio per approfondire lo studio della pittura italiana. Tra i tanti viaggi, nel 1947 ve n’è anche uno a Parigi, dove, sempre per il tramite dello zio, conosce André Pieyre de Mandiargues, scrittore vicino agli ambienti surrealisti, con cui convola a nozze nel 1950.

Trasferitasi stabilmente nella capitale francese, Bona inizia la sua avventura come pittrice, stimolata dalla vivace scena artistica parigina e dalla frequentazione di artisti e personalità legati al Surrealismo, tra cui André Breton, Max Ernst, Meret Oppenheim, Man Ray, Henri Michaux, Hans Bellmer con sua moglie Unica Zürn, solo per dirne alcuni. Dopo una prima fase in cui è evidente l’influenza dello zio, maestro e mentore, Bona si orienta progressivamente verso una pittura fatta di forme perturbanti e suggestioni oniriche, influenzata in parte anche dal marito, discepolo di Breton e autore di testi traboccanti di erotismo e fantasia. Così, all’inizio degli anni Cinquanta, nelle sue tele fanno la loro comparsa bizzarre creature dall’aspetto ambiguo, vagamente antropomorfe, come colte in un processo di trasformazione, e poi insetti, rospi, elementi di origine marina come sassi, ciottoli, legni corrosi dal mare, e ancora radici e mandragore. Collocati in paesaggi di impronta metafisica, tali soggetti producono un senso di spiazzamento, meraviglia e inquietudine al tempo stesso.

La prima mostra personale di Bona de Mandiargues si tiene nel 1952, presso la galleria parigina Berggruen. Ne seguono diverse altre, tra Parigi e l’Italia, come quella svoltasi a Modena nel 1953, in cui a presentare i lavori della pittrice è un ammiratore d’eccezione, Giuseppe Ungaretti, che scrive: «Qui sono relitti abbandonati sulla sabbia dalle maree, minuscoli relitti, occhiute radici macerate, levigate, inasprite dal permanere nei silenzi dell’acqua, detriti di conchiglia, con buchi, col vuoto da cui si scopre la realtà. Sono qui questi oggetti drizzati come balocchi, come feticci: mostri, eppure non fanno paura, danno malinconie indecifrate d’altra natura […]».

Nel 1955, Bona de Mandiargues compie un viaggio di qualche mese in Egitto, insieme al marito. Tale esperienza si riflette nelle opere di questo periodo, che mostrano infuocati paesaggi desertici. Paesaggi che si fanno via via più magmatici e astratti quando, con la morte dell’amato zio nell’aprile del 1956, Bona vive una profonda crisi che la porta ad abbandonare temporaneamente la figurazione per approdare a una pittura fatta di impasti densi e materici.

Bona de Mandiargues, Il canto della creazione, 1975.  © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna.jpg

Bona de Mandiargues, Il canto della creazione, 1975

  • © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Alla fine degli anni Cinquanta, invitata dal poeta e saggista messicano Octavio Paz, l’artista si reca con il marito in Messico, soggiornandovi per alcuni mesi. Nel “paese più surrealista del mondo” ‒ per usare un’efficace definizione di Breton ‒ entra in contatto con il milieu culturale locale, lasciandosene felicemente ispirare. In questo periodo, Bona inizia a sviluppare quella che diventerà una delle sue tecniche predilette, e anche quella che più di tutte ne contraddistinguerà la ricerca: l’assemblage di stoffe e materiali tessili. Tra le sartorie e le botteghe di tessuti del quartiere parigino in cui risiede, il Marais, l’artista recupera gli scarti tessili ‒ «quelle fodere strappate, quelle spalline lacerate» ‒ con cui creare singolari collage servendosi di una macchina Singer a pedali. Nascono così opere misteriose e stratificate, come Il male di vivere, Toro nuziale (ora esposta alla Biennale), Diana cacciatrice e cacciata o il bellissimo Trittico della nascita. «Se ho scelto questi materiali molto umili, non era, non è, per cercare di fare neo-dada. Come per il tessuto del saio di san Francesco, si può dare loro una nobiltà che rasenta il sublime […] ho rivoltato le giacche da uomo (il loro guscio), ho tagliato il vivo per arrivare al cuore dell’armatura, della protezione» scrive a tale proposito Bona nella sua autobiografia intitolata Bonaventure (pubblicata nel 1977). E sono significative e suggestive anche le parole usate nel 1973 da Italo Calvino, altro grande estimatore dell’artista: «Bona ride e infuria tra le toppe e i rammendi, manda in pezzi e tagliuzza la figura del mondo, sovrappone il rovescio al diritto, disegna coi punti le onde del campo magnetico in cui gravitano i nostri brandelli di carne, e riduce punto per punto il tessuto vivente continuo come il filo che passa e ripassa e connette i velluti i broccati gli stracci, salda i labbri feriti, punge con aghi d’incantesimo il vortice e lo cattura in una screziata spirale […]».

Dunque, Bona non è solamente una pittrice, ma anche tessitrice, maga, alchimista, incantatrice e coraggiosa sperimentatrice, oltreché autrice di racconti e poesie (accanto alla già citata autobiografia, ricordiamo le raccolte di versi I lamenti di Serafino e À moi-même, e il testo Vivre en herbe, incentrato sulla sua infanzia). Non abbandona la pittura e nel corso degli anni Sessanta ritrova la figurazione dando vita a opere colme di simbologie, pervase da rimandi magici e alchemici e dai riferimenti alle culture lontane con cui entra in contatto in occasione dei tanti viaggi tra India, Afghanistan, Nepal, Sri Lanka, e ancora Messico.

Separatasi dal marito per qualche tempo, Bona si riconcilia con lui nel 1967, anno in cui dà alla luce la figlia Sibylle. In questo periodo, tuttavia, si acuisce anche l’inquietudine esistenziale dell’artista: un malessere che sfocia in momenti di forte depressione, costringendola a subire ripetuti ricoveri in ospedale. Consapevole del delicato confine fra sanità e malattia, confesserà al marito: «C’è nella pazzia qualcosa di sublime, di eroico, di vera ribellione alla società».

All’inizio degli anni Settanta, Bona de Mandiargues riprende a poco a poco a lavorare. La sua nuova produzione è caratterizzata da una figura che diventerà da ora in avanti un elemento chiave della sua arte: la chiocciola. Essere ermafrodita e ambivalente, al contempo ripugnante e affascinante, simbolo di forza e fragilità, la chiocciola viene scelta da Bona quale animale totemico, «lunare e lunatico, simboleggia il movimento nella permanenza». È lei la Femme-escargot (Donna-lumaca) che compare in tante sue opere.

Nei decenni successivi e fino alla sua morte, avvenuta nel 2000, Bona de Mandiargues alterna periodi di stasi e raccoglimento ad altri di intensa attività, continuando a sperimentare con forme, tecniche, materiali e supporti. Ricordando la madre, Sibylle de Mandiargues ha usato parole struggenti e appassionate: «Bona ha vissuto a duecento all’ora e non si è mai risparmiata, ha divorato ogni momento della vita ed è stata divorata a sua volta. Chi potrà mai contare i sogni dissolti, svaniti, eclissati che hanno abitato le sue stanze? I personaggi a volte mostruosi, i voyeurs che si affacciano nei quadri, le bambine o le donne lumache sono muti testimoni del suo teatro interiore che con forza, coraggio e astuzia ha salvato dalla frantumazione».

Bona de Mandiargues, La mia mano, 1992. © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna.jpg

Bona de Mandiargues, La mia mano, 1992

  • © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Art Basel

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  • Courtesy: Art Basel

Il corpo

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  • © Museo nazionale svizzero landesmuseum.ch
  • Bona de Mandiargues

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