Camaleonte, divoratore di stili, assetato di pittura, Carlo Carrà (11 febbraio 1881 – 13 aprile 1966) ha contribuito alla rinascita dell’arte italiana, liberandola dal regionalismo ottocentesco e aprendola ad un clima europeo, tra Divisionismo, Futurismo, Cubismo, Primitivismo e Metafisica. La sua pittura è l'indizio che qualcosa di nuovo e di inaudito sta emergendo e che l'arte sta voltando pagina e secolo.
Nato a Quargnento nell’alessandrino, dalla famiglia di un ciabattino, Carrà si trasferisce giovanissimo a Milano, dove lavora come decoratore, conducendo una vita di stenti in locande di basso ordine. La domenica, però, è sua abitudine recarsi alla Pinacoteca di Brera e al Museo Poldo Pezzoli, dove scopre i nuovi fermenti artistici: la pittura di Segantini e di Previati. Le sue opere (fino al 1909) mostrano un approccio divisionista, con un’attenzione imprescindibile ai risvolti della luce, come emblematizza uno dei suoi primi quadri, La strada di casa, dove viene riprodotto uno spazio deformato, dinamico, che sembra nascere dall'orizzonte di luce, risucchiando l’occhio di chi guarda all'interno dell’opera.
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Carlo Carrà, La strada di casa, 1900
L’attenzione nei confronti della luce tornerà in modo ossessivo allorché Carrà incontrerà Boccioni, Balla, Russolo e Severini, con i quali scriverà il Manifesto tecnico della pittura futurista, in cui gli artisti si proclamano “signori della Luce, poiché già beviamo alle fonti del sole”.
Aderendo al Futurismo, Carrà implicitamente si oppone alla corrente naturalista di stampo ottocentesco, stigmatizzando aspramente la pittura di paesaggio: «Finiamola coi laghettisti, coi montagnisti. Li abbiamo già sopportati abbastanza tutti codesti impotenti pittori di villeggiatura». Nascono in questo periodo opere luminisitiche.
“Canteremo le maree multicolori e polifoniche della rivoluzioni della capitali moderne; canteremo …violente lune elettriche”, scrive Marinetti, aprendo l’arte a raffigurazioni urbane e moderniste. Opere come Piazza del duomo, Stazione di Milano, Luci notturne, L’uscita del teatro risentono fortemente dell’assunto marinettiano, dando spazio ad autobus, pali elettrici e gente brulicante. Si tratta di opere sonnamboliche, in cui l’attenzione al chiaroscuro pittorico, alla razionalità del disegno prevalgono sull’oggetto raffigurato e sugli elementi naturali.
Il distacco dal naturalismo diventerà ancor più profondo allorché Carrà nel 1911 si trasferirà a Parigi, avvicinandosi al movimento cubista. Tracce dell’incontro con Braque e Picasso si manifesteranno in opere come Il movimento del chiaro di luna, Ciò che mi ha detto il tram, Ritmi di oggetti, Sintesi di un caffè concerto. L’idea del collage e della scomposizione produce effetti particolari sull’opera di Carrà, che produce quadri astratti e assolutamente moderni senza mai scordare la lezione del passato.
Stessa cosa succederà con la scoperta della Metafisica, fra il 1917 e il 1919, quando l’artista si reca a Ferrara e frequenta De Chirico. Dal sodalizio con il pittore surrealista nasceranno opere interessantissime, opere in cui Carrà filtra i dettami della Metafisica con la lezione mai abbandonata della luce (discendente da Giotto, Piero della Francesca e dai primitivi italiani). In Carrà tradizione e innovazione giocano sempre a rimpiattino; da un lato si avvertono le spinte avanguardistiche dall’altro si percepisce un ancoramento allo spirito ininterrotto della tradizione. Uno spirito che ha il suo emblema nella luce che promana dalla pittura del Trecento-Quattrocento toscano e attraversa, come un filo d’oro, l’intera pittura italiana.
Attraversate tutte queste correnti, ecco che Carrà approda alla sua vena più vera ed autentica: quella del realismo magico, che lo accompagnerà negli ultimi 40 anni. Punto di svolta è il bellissimo quadro Pino sul mare del 1921, in cui è evidente il richiamo a De Chirico, ma allo stesso tempo appare impellente la necessità di un recupero della natura (cui concorre la lezione del nuovo primitivismo di Rousseau e di Derain).
Carrà ritorna dunque al paesaggio, paesaggio che aveva costituito il fulcro dei suoi primissimi quadri, e che ha poi abbandonato, sulla scorta delle correnti moderniste. Solo che il paesaggio non è più quello realistico della campagne piemontesi, ma è un paesaggio meraviglioso. Come Montale, e negli stessi anni, Carrà trasfigura i luoghi semplici ed abbandonati in qualcosa di miracoloso, in apparizioni. Scrive Carrà: «La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione. Sotto questo duplice stimolo il pittore potenzia la sua capacità di sottrarre le cose alla contingenza, purificandole e conferendo loro un valore assoluto. La pittura crea così una cosa nuova, un’entità nuova».
Emerge dunque una nuova visione della pittura. Spinto dal desiderio di “essere soltanto se stesso”, teso verso una semplificazione dell’immagine e una rinnovata sintesi fra realtà ed elaborazione pittorica, Carrà produce quadri assolutamente originali e straordinari: Il pino sul mare, Le figlie di Loth, L’attesa.
La natura diventa la sua musa, e insieme a lei riappare, negli anni Trenta, anche il corpo umano. Marine, paesaggi che strizzano l’occhio alla lezione materica di Cézanne, nuotatori, bagnanti, atleti: la pittura di Carrà torna alla realtà, non imitandola bensì immedesimandosi. È come se la natura venisse assorbita dall’artista, il quale ce la restituisce carica e intrisa di tutto il cammino percorso interiormente, elaborandola in una visione mitica, aurorale, sospesa. “Così da fare di un paesaggio un poema pieno di spazio e di sogno”.
Carlo Carrà, Spiaggia-capanne al mare, 1927
Emblema di questa nuova visione pittorica è L’attesa del 1926: un vero e proprio capolavoro, in cui una donna e un cane si stagliano contro la dolcezza di un paesaggio collinare e aspettano che arrivi qualcosa dalla linea dell’orizzonte. Come in tutte le opere di questo periodo, anche questa suggerisce una dimensione metafisica, apparentemente svuotata di coordinate spazio-temporali, disposta nel non-tempo dell’attesa, attesa di qualcosa di trascendente o, come scrive Sereni, di un tacito evento.
Carlo Carrà, L'attesa , 1926
In questo quadro riecheggia la potenza dell'ultimo Carrà: il suo strenuo tentativo di restituire il sogno alla natura, l’invisibile al visibile, riportando, sulla falsariga di Giotto e di Masaccio, visioni celesti in mezzo agli uomini.