In collaborazione con la prestigiosa National Portrait Gallery di Londra, la Fondation Pierre Gianadda di Martigny presenta la mostra Francis Bacon - Human Presence, a cura di Rosie Broadley. L’esposizione rimane aperta fino all’8 giugno 2025
Di cosa è fatto un essere umano? Di altri esseri umani. Uno che lo sapeva molto bene era Francis Bacon.
Quando, nel 1998, la direttrice della Hugh Lane Gallery di Dublino, Barbara Dawson, pianificò il trasferimento dell’atelier dell’artista – dal 7 di Reece Mews a Londra alla zona nord della sua città natale – ingaggiò, oltre a un team di conservatori e curatori, anche sei archeologi. Il progetto di Dawson era di rimuovere e ricostruire in maniera identica l’intero studio, le sue strutture architettoniche (pareti, porte e soffitto) e gli oggetti che esso conteneva, inclusi tutti quelli che giacevano sul pavimento. Furono gli archeologi a documentare la posizione dei materiali nello studio, a preparare i disegni in rilievo, a mappare quella stratificazione che, accumulatasi in oltre trent’anni, aveva sollevato di molti centimetri il livello del pavimento. Perfino la polvere fu impacchettata a Londra e redistribuita a Dublino. Un lavoro da un milione e mezzo di sterline che durò tre anni. Tra gli oltre settemila oggetti catalogati – «un ammasso dostoevskiano» già a fine anni Cinquanta, stando alla testimonianza dell’amico Cecil Beaton – la categoria forse più rappresentata era quella delle fotografie (dei suoi modelli, di sé stesso, di corpi mutilati, di animali vari).
Bacon lavorava così: dal 1960 l’artista che ha reinventato il genere del ritratto aveva definitivamente smesso di dipingere i suoi modelli dal vero. E questo non solo e non tanto perché la seduta di posa rischiava spesso di trasformarsi in un happening alcolico, ma soprattutto perché Bacon si scoprì inibito dalla presenza del modello. L’esperienza fatta proprio con Cecil Beaton, costumista, fotografo di moda e reporter di guerra, ebbe il suo peso in questa faccenda. Era il 1957, Francis e Cecil si conoscevano da qualche anno quando il pittore inizò un ritratto dell’amico che portò a compimento due anni dopo. Le chiacchiere effervescenti delle sedute di posa – Bacon era curioso di tutto e sapeva parlare di tutto, un verre à la main – entusiasmavano il fotografo dandy, che pregustava il piacere di vedere il suo volto emergere dall’«oscurità stigia» della tela come già quello di Robert Sainsbury (Portrait of R. J. Sainsbury, 1955, inaugura la prima sezione della mostra di Martigny). In pochi anni però lo stile di Bacon era già mutato e Cecil restò scioccato dal risultato finale: «A malapena si poteva riconoscere un viso in quel viso – dirà – a tal punto si disintegrava sotto gli occhi (…) come un massa gonfia di carne cruda e tessuto adiposo».
Con discrezione, Bacon distrusse il dipinto. Da allora preferì ritrarre i suoi modelli muovendosi tra memoria, fotografie e altre immagini (che si accumularono sul pavimento del suo atelier mescolandosi a chili di altri frammenti di vita): «If I like them, I don’t want to practise before them the injury that I do to them in my work. I would rather practice the injury in private».
The injury: la ferita. Quella lasciata sul corpo del modello dallo sguardo dell’artista.

Francis Bacon, Head VI, 1949
A partire dal dipinto che lo ossessionò per tutta la vita – quel ritratto di Innocenzo X realizzato da Velázquez che Bacon non vide mai dal vivo ma di cui collezionò decine e decine di riproduzioni – il dubliner autodidatta sconvolge letteralmente il genere. Lo reinventa. La sua “riscrittura” del ritratto del papa (Head VI, 1949: una delle opere maggiori dell’artista presenti in mostra) inaugura un percorso di ricerca che resterà sempre teso a cogliere l’enigmatica essenza del soggetto, facendo cadere i veli, gli schermi, le maschere che lo proteggono, a costo di scuoiarlo vivo. È così che il “suo” papa è una figura di prigioniero in gabbia, che si disintegra, che si decompone mentre la sua bocca spalancata grida tutto l’orrore. Niente più prestigio, niente più potere, niente più onore. Com’è ovvio che capiti per tutto ciò che incarna un’ossessione, Bacon non si libererà di questo soggetto e continuerà a dipingerlo – anche in Study for Portrait (with two owls), 1963, che, grazie a questa mostra, ritorna per la prima volta in Europa.
Il problema, con un ritratto, è trovare la tecnica che permetta di cogliere tutte le pulsazioni di una persona. Il modello è un essere di carne e sangue e ciò che bisogna coglierne è l’emanazione.
David Sylvester
Anche David Sylvester, eminente critico d’arte, posò per lui e anche Sylvester ne restò scioccato: durante una seduta, Bacon, più che guardarlo, fissava qualcosa che teneva dietro la tela. Quando Francis si allontanò per andare in bagno, David Sylvester sbirciò dietro la tela: l’immagine che l’artista fissava mentre gli faceva il ritratto era quella di un rinoceronte! Ci vuole una buona dose di hybris per volare così alto, per osare sperare di mettere a nudo tanto crudamente un essere umano. O forse, una dose ancora maggiore di amore per l’umano, per quell’essere umano particolare, per il suo particolare abisso tra fragilità e maschera.
Dopo le committenze degli anni giovanili, Bacon preferisce, dal 1960 in avanti, ritrarre persone cui è legato da una relazione sentimentale, sessuale, amicale, di collaborazione. Per cogliere l’essenza (quella che Deleuze, nel suo saggio su Bacon, Logica della sensazione, chiama la «melitudine» della mela), la pulsazione, l’energia, la forza vitale, l’aura individuale e l’insuperabile condizione mortale del soggetto è necessario a Bacon provare sentimento per quel soggetto. Sono allora gli amici e gli amanti, i sodali di bevute nei bar di Soho. Nella galleria della Fondation Gianadda ecco i suoi mecenati, Robert e Lisa Sainsbury, e Peter Lacy l’amore della sua vita, ritratto post-mortem nella sua inutile e livida virilità (Portrait 1962, la tela più dirompente fra le trenta esposte in Présence humaine); sono Muriel Belcher anima del mondo libertino al Colony Room; l’amico-fraterno-rivale Lucian Freud, la cui fisionomia fa confondere con la sua, e il ladruncolo-boxeur George Dyer, che da appassionato amante diventa la fonte di ogni suo senso di colpa; la pittrice-musa Isabel Rawsthorne, e l’amica attivista Henrietta Moraes, ritratta nuda con la siringa ipodermica infilata in un braccio… Solo con loro e per loro Bacon ci mette le viscere e la pelle. Letteralmente: deformazioni e distorsioni dei volti e dei corpi sulla tela, Bacon le otteneva spesso cancellando con le dita il pigmento, la materia, con interventi che Deleuze interpreta come «una violenza dell’artista sui dati della rappresentazione, per entrare nel corpo stesso del visibile».
L’esito è l’indecidibilità, l’impossibilità di una definizione completa per il soggetto umano, che è sé ma che è anche l’Altro, nella ferita inferta dall’Altro, nella traccia lasciata dall’Altro (attenzione all’uso che Bacon fa della parola «studio» quale titolo dei ritratti: uno studio è un work in progress, un non risolto, un non finito, perché nella condizione umana non c’è mai una fine, né un fine).

Francis Bacon, Triptych May-June, 1973
Metterci la pelle. Metterci il proprio corpo. Era allergico alla terebentina Bacon (e asmatico) e sulle mani – che agivano appunto a deformare i volti altrui – gli comparivano talvolta vaste eruzioni cutanee che considerava «estremamente suggestive, tutt’altro che orribili» al punto da farne ispirazione per alcuni dei (pochi) paesaggi che ha realizzato (Sand Dune, 1983), in un corto circuito tra ritratto e autoritratto che non potrebbe sottrarsi a un’idea che piacerebbe chiamare “pittura della relazione”, perché nasce proprio nell’andirivieni tra relazione-corpo-relazione. Così va intesa, io credo, una dichiarazione di Bacon che è più che altro una delicata confessione, soprattutto se la si legge pensando ai suoi monumentali trittici: «Mi piacerebbe che i miei dipinti dessero l’impressione che un umano è passato in mezzo a loro, come una lumaca, lasciando la traccia della presenza umana e la memoria del passato come la lumaca lascia il suo solco di bava». Quella presenza umana era la sua, quelle fasce di muro bianco che separano le tele dei trittici sperava, chiedeva – la citazione è ripresa in esergo alla mostra – che fossero viste per ciò che erano, la traccia della sua presenza nel dipinto, col soggetto, insieme al soggetto. Il ritratto contiene già (sempre?) l’autoritratto.
Pare che Bacon fosse uno di quelli a cui piace risolvere lo strazio in una battuta – a chi ebbe il coraggio di manifestargli solidarietà dopo il suicidio del suo amante George Dyer (morto in un hotel di Parigi, con un cocktail di alcol e barbiturici, l’antivigilia dell’inaugurazione della grande retrospettiva che il Grand Palais consacrò all’artista, nel 1971 ) rispose: «di queste cose si può solo piangere, o ridere» scoppiando in un’acida risata (lo strazio lo lasciò tutto per il Tryptic May-June 1973: sicuramente la pièce maîtresse di Présence humaine). Con la stessa straziata leggerezza volle spiegare che si era messo a fare autoritratti perché:
Intorno a me le persone sono morte come mosche e non mi restava nessun altro da dipingere se non me stesso.
Francis Bacon
I più intensi furono proprio quelli immediatamente successivi alla morte di chi gli fu più caro, come a dire: nessuno mi ha mai lasciato, di ciascuno porto su di me la traccia, la ferita. Nell’immagine del suo corpo, esposta in oltre cinquanta self-portraits, Bacon fondeva quella dei suoi soggetti – l’anatomia di Lucian Freud si sovrapponeva alla sua – l’autoritratto esibiva la marca della loro presenza su di sé – nel suo volto, spesso il volto di Peter Lacy – del vissuto, del passato, del “fatto” – l’orologio d’oro che George Dyer aveva rubato per fargliene dono – del sentito coi nervi e col sangue.
E l’ombra, quell’ombra che compare nei ritratti post-mortem dei suoi amanti, potrebbe davvero contenere la sua.
Di cosa è fatto un essere umano? Di altri esseri umani. Sì, uno che lo sapeva molto bene era Francis Bacon.
I ritratti e gli autoritratti di Francis Bacon
Alphaville 04.03.2025, 11:05
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