Arte

Edvard Munch, un pittore tra dolore e liberazione

Profondo indagatore dell’animo umano, ha riversato sulla tela fantasmi, paure e ossessioni, facendo urlare i colori. Fino al 26 gennaio a Milano una grande mostra ne celebra il genio

  • 3 ottobre, 11:37
  • 4 ottobre, 14:31
Edvard Munch, Autoritratto davanti al muro di casa, 1926. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Autoritratto davanti al muro di casa, 1926

  • © Munchmuseet
Di: Francesca Cogoni 
Le mie sofferenze fanno parte di me stesso e della mia arte. Sono indistinguibili da me, e la loro distruzione distruggerebbe la mia arte. Voglio conservare quelle sofferenze

Edvard Munch

Fino alla sua morte, avvenuta ottant’anni fa, Edvard Munch non si liberò mai dei propri fantasmi, ma vi convisse ineluttabilmente. Anche per questo oggi il grande artista norvegese è considerato una delle personalità più tormentate ed emblematiche dell’epoca moderna. Morì solo, per le conseguenze di una broncopolmonite, in un freddo pomeriggio di gennaio nella sua casa di Ekely, nella periferia di Oslo. Qui, nel 1916, aveva acquistato una proprietà per farne la sua residenza stabile, allontanandosi da tutto e tutti per stare a stretto contatto con la natura e continuare a dipingere ‒ nonostante i gravi problemi alla vista ‒ come aveva fatto per tutta la sua vita. Lavorava preferibilmente all’aperto e quando le condizioni meteorologiche non erano favorevoli si rifugiava nello “studio invernale” progettato dall’amico architetto Henrik Bull. Dopo aver vagato per tanto tempo tra la sua terra natale, la Germania e la Francia, Munch aveva diradato i suoi viaggi, la sua indole solitaria aveva preso il sopravvento e l’arte era diventata il suo unico e costante pensiero: «Non riesco più a sopportare di restare lontano dal carboncino e dai pennelli per molto tempo».

Edvard Munch, Le ragazze sul ponte, 1927. Foto Halvor Bjørngård © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Le ragazze sul ponte, 1927. Foto Halvor Bjørngård

  • Foto Halvor Bjørngård © Munchmuseet

Poco prima di morire, l’artista aveva deciso di donare alla città di Oslo, attraverso un lascito testamentario, tutti i lavori rimasti in suo possesso, vale a dire più di un migliaio di dipinti e innumerevoli opere grafiche, disegni e schizzi, senza dimenticare i tanti manoscritti, le lettere, i diari e le fotografie. Un immenso, preziosissimo patrimonio che ora è esposto e conservato presso il Munchmuseet, straordinario edificio di tredici piani che dal 2021 svetta sul lungomare della capitale norvegese. Si tratta di una delle istituzioni museali riservate a un singolo artista più grandi al mondo: un vero e proprio tempio dell’arte munchiana, si potrebbe dire, dove apprezzare appieno la ricchezza del genio creativo di Edvard Munch e approfondire ogni aspetto del suo percorso artistico e biografico. Perché se è vero che, insieme alla Gioconda, L’Urlo di Munch è tra le opere d’arte più celebri e iconiche di sempre, è altrettanto vero che il resto della sua vasta produzione non è sufficientemente noto e merita di essere valorizzato al meglio. Per un grandissimo artista dall’eredità sconfinata, del resto, ci vuole un grandissimo museo.

Edvard Munch, Notte stellata, 1922–24. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Notte stellata, 1922–24

  • © Munchmuseet

In questo periodo ben cento opere provenienti dal Munchmuseet sono eccezionalmente allestite a Palazzo Reale a Milano in occasione della mostra “MUNCH. Il grido interiore”, visitabile fino al 26 gennaio 2025. Una grandiosa retrospettiva che tra dipinti, disegni e stampe offre un percorso accurato, coinvolgente e suggestivo. Si va da lavori di estrema cupezza, come Morte nella stanza della malata e Morte di Marat, ad altri incentrati sul rapporto tormentoso tra uomo e donna, tra cui Vampiro, Danza sulla spiaggia, Verso la foresta, Gelosia, passando per significativi ritratti di sé stesso, per esempio il fiammeggiante Autoritratto all’inferno, e opere imprescindibili come L’Urlo, di cui è esposta una delle versioni litografiche. 

Edvard Munch, Autoritratto a Bergen, 1916. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Autoritratto a Bergen, 1916

  • Photo © Munchmuseet

«Per me, dipingere è come essere ammalato o intossicato – una malattia dalla quale non vorrei mi si guarisse, un’intossicazione di cui non posso fare a meno». Questa dichiarazione e molti altri scritti firmati dall’artista scandinavo (una lettura appassionante, a questo proposito, è il recente volume Edvard Munch, La danza della vita. La mia arte raccontata da me, Donzelli editore, 2022) ci danno la misura dell’importanza che l’arte aveva per il suo equilibrio psicofisico e la sua stabilità mentale. La pittura, il disegno, la scrittura e poi anche la fotografia (Munch amava sperimentare con il mezzo fotografico e ci ha lasciato numerosi autoritratti, sorta di selfie ante litteram) rappresentavano per lui un’ancora di salvezza, qualcosa di vitale e necessario, un modo per “far luce” ‒ per usare le sue stesse parole ‒ sulla sua vita e sul suo significato. Lungo l’intero corso della sua esistenza, infatti, Munch ha cercato la luce, in tutti sensi, perché tanti erano i lati oscuri e gli spettri che lo perseguitavano: dai lutti vissuti fin dalla tenera età ai problemi di salute, fino all’alcolismo. «Ho ereditato due dei più temuti nemici dell’umanità – tubercolosi e malattia mentale. Malattia, pazzia e morte sono gli angeli neri che hanno attorniato la mia culla» scrisse. Angeli neri che Munch affrontò con l’arte, lavorando senza sosta, fino ai suoi ultimi giorni. Questo ci spiega anche la vastità del suo lascito.

Edvard Munch nasce a Løten, in Norvegia, nel 1863. Secondogenito del medico e ufficiale Christian Munch e di Laura Bjølstad, fin da piccolo presenta una salute cagionevole. Quando ha appena quattro anni, la giovane madre muore di tubercolosi. A prendersi cura di lui e dei suoi quattro fratelli sarà la zia materna Karen, pittrice che trasmette ai nipoti la passione per le attività creative. Il piccolo Munch ama disegnare, soprattutto soggetti tratti dalla quotidianità o ispirati alle storie raccontate dal padre e dalla zia. «Mi ricordo ancora di come a sette anni, steso a terra, disegnavo i ciechi con un pezzetto di carboncino.» A tredici anni, però, Munch vive un altro terribile trauma: la morte dell’adorata sorella quindicenne Sophie, stroncata anche lei dalla tubercolosi. Saranno tante le opere incentrate su questo triste evento, in particolare La bambina malata, uno dei suoi primi dipinti, e Morte nella stanza della malata. A completare il quadro di un’infanzia dolorosa si aggiunge la depressione del padre, unita a una religiosità ossessiva.

Incalzato dal padre, che lo vorrebbe ingegnere, Munch si iscrive a un istituto tecnico, ma nel 1880 annota nel suo diario: «Ho deciso di diventare pittore». Inizia così la sua formazione artistica. A Oslo (all’epoca chiamata Kristiania) studia pittura e disegno, e insieme ad altri studenti d’arte prende in affitto un atelier. L’originalità del suo stile non tarda a farsi notare. Inizia a esporre e a partecipare a mostre collettive, come quella al Salone delle Arti Decorative di Oslo. Grazie al suo talento, vince diverse borse di studio che gli permettono di proseguire gli studi e viaggiare (Copenaghen, Anversa, Parigi…). Nel frattempo frequenta l’ambiente bohémien della capitale, stringendo amicizia, tra gli altri, con lo scrittore anarchico Hans Jæger, autore di un romanzo sequestrato per oscenità.

Edvard Munch, Madonna, 1894. Olio su tela. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Madonna, 1894

  • Photo © Munchmuseet

Nel 1886 al Salone d’Autunno di Oslo, La bambina malata sconcerta pubblico e critica. Alcuni parlano di “imbrattatura”. Più che il soggetto, è la tecnica pittorica adottata da Munch a provocare indignazione: la stesura frettolosa, intensa e nervosa del colore, che si discosta dal naturalismo imperante e dai canoni accademici. È come se il quadro fosse animato da una forza e da una luce interne. Munch, come molti artisti e intellettuali della scena bohémienne norvegese, cerca con la sua arte di combattere l’ottusità dei principi morali e religiosi e le convenzioni della società borghese. «È il mercato a rovinare l’arte» dichiara, «la pretesa che i quadri facciano un bell’effetto appesi alla parete.» E così il pittore continua per la sua strada, incurante delle critiche e delle maldicenze dei conservatori. Soggiorna più volte nella capitale francese, dove frequenta la scuola d’arte del ritrattista Léon Bonnat, ma soprattutto entra in contatto con i pittori neoimpressionisti, subendone in qualche modo l’influenza (ne sono testimonianza opere come Primavera sulla via Karl Johann e Rue Lafayette).

Oltre alla capitale francese, è anche Berlino ad attrarre Munch. Qui ritrova l’atmosfera anticonformista della bohéme di Oslo e, a partire dal 1892, frequenta il circolo letterario Zum Schwarzen Ferkel (“Al maialino nero”), che ha per capofila il drammaturgo e scrittore svedese August Strindberg. Nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento, Munch dipinge assiduamente ed espone in diverse città europee, guadagnando fama internazionale. «Che cos’è l’arte? L’arte emerge dalla gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore. Fiorisce dal vivere umano» scrive. Ne sono prova dipinti come Adolescenza, Madonna, Malinconia, Cenere.

Edvard Munch, La morte di Marat, 1907. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, La morte di Marat, 1907

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«Munch ha qualcosa in più degli artisti delle altre generazioni: sa mostrarci effettivamente che cosa ha provato, che cosa lo ha toccato, e a ciò subordina tutto il testo» afferma il pittore e amico Christian Krohg. È proprio così: Munch considera l’arte come una specie di “confessione”. Riversa sulla tela fantasmi, paure, ossessioni, facendo vibrare, stridere e gridare i colori. Emblematico in tal senso è L’Urlo, dipinto per la prima volta nel 1893 e poi successivamente in diverse versioni (era tipico di Munch realizzare più varianti di uno stesso soggetto nel corso del tempo). Ecco come il pittore descrive la nascita di questo magnetico dipinto: «Camminavo lungo una strada con due amici – poi il sole è tramontato. A un tratto il cielo è diventato rosso sangue e ho avvertito un brivido di angoscia. Una morsa di dolore al petto. Mi sono bloccato – appoggiandomi al passamano, perché avvertivo una stanchezza mortale. Sopra al fiordo blu scuro e alla città colava sangue in lingue fiammeggianti. I miei amici continuavano a camminare - e mi hanno abbandonato tremante di paura. E io ho sentito un enorme sconfinato urlo percorrere la natura».

26:24

Edvard Munch

RSI Cultura 02.02.2014, 08:00

  • © The Munch Museum

Negli stessi anni, Munch concepisce per la prima volta anche l’idea del Fregio della vita, che mira a riunire una serie di quadri in un unico ciclo, come a comporre una “sinfonia”. Quest’idea lo accompagnerà per tutta la sua carriera e sarà messa in atto varie volte in contesti diversi, la prima occasione avviene nell’ambito della Berliner Secession nel 1902. «Il Fregio è come una poesia della vita, dell’amore e della morte […]» spiega Munch, «i colori forti producono un’eco che risuona per tutti i quadri».

Edvard Munch, Il bacio, 1897. Photo © Munchmuseet.jpg

Edvard Munch, Il bacio, 1897

  • Photo © Munchmuseet

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Edvard Munch è ormai un artista consolidato e apprezzato, un precursore dell’Espressionismo cui guardano in molti, che si muove da una città all’altra ricevendo importanti incarichi e committenze (come i maestosi dipinti per l’Aula Magna dell’Università di Oslo). Al di là dei successi artistici, però, il pittore ha una grave dipendenza dall’alcol, viene spesso ricoverato per problemi di salute e disturbi psichici e colleziona una serie di relazioni sentimentali turbolente, come quella con Tullia Larsen, modella di molti suoi quadri. Angosciato dal timore di trasmettere la propria malattia ai suoi possibili figli, Munch non vorrà mai sposarsi, preferendo restare solo. Neanche le estati trascorse nella casa di Åsgårdstrand, luminosa cittadina costiera della Norvegia, riescono ad alleviare le sue pene. Solo nel 1909, dopo una degenza di sei mesi in una clinica, Munch decide di cambiare vita: abbandona l’alcol e il fumo, adotta una dieta vegetariana e predilige soprattutto la pittura all’aria aperta. In una grande mostra a Colonia, nel 1912, è celebrato come uno dei fondatori dell’arte contemporanea, accanto a Cézanne, Van Gogh e Gauguin.

Io cammino lungo un sentiero stretto. Da un lato un precipizio scosceso, un abisso dal fondo senza fine […]. Dall’altro lato i prati, le montagne, le case, la gente. Io cammino e vacillo su quel crinale.

Edvard Munch

Tutta l’opera di Munch è il racconto di questo cammino vacillante e travagliato. Nonostante sia trascorso più di un secolo dalla sua creazione, non è difficile percepire l’eco del suo Urlo ancora oggi. 

02:30

80 anni fa moriva Munch

Telegiornale 23.01.2024, 20:00

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