“Prima o poi nascerà una fede nei miei quadri, nei miei scritti, nei concetti che esprimo con parsimonia, ma nella forma più pregnante. I quadri che ho realizzato finora saranno forse solo dei preamboli, non lo so. Ne sono così insoddisfatto, se li passo in rassegna. Hanno torto quanti pensano che dipingere sia meglio di niente. Dipingere è una capacità. Io penso all’accostamento dei colori più caldi, che sfumano, che si liquefanno, rifrangono, stanno in rilievo, carica terra di Siena grumosa con verdi o grigi, e accanto una stella di un azzurro freddo, bianca, biancoazzurra. Sono diventato esperto e ho fatto i calcoli rapidamente, ho osservato ogni cifra e ho cercato di desumere. Il pittore può anche guardare. Ma vedere è qualcosa di più. Stabilire un contatto con un’immagine che ci riguarda, è molto. La volontà di un artista?”
“Io esisto per me e per coloro ai quali l’inestinguibile sete di libertà che ho in me dona tutto,ed esisto anche per tutti, perché amo – anch’io amo – tutti.Sono il più nobile tra gli spiriti nobili – e quello che più ricambia tra chi ricambia.Sono un essere umano, amo la vita e amo la morte.”
È lo stralcio di una lettera del 20 giugno 1911 che Egon Schiele (12 giugno 1890 – 31 ottobre 1918) indirizza al dottor Oskar Reichel, uno dei suoi principali mecenati-collezionisti. Ne trapelano l’irrequietezza e la risolutezza di un artista che ha segnato in modo profondo l’arte del primo Novecento, e che avrebbe potuto lasciarci molto di più se la morte non lo avesse colto prematuramente all’apice della sua carriera. Il 31 ottobre 1918, infatti, il ventottenne Schiele viene stroncato dalla devastante epidemia di influenza spagnola che ha già falcidiato mezza Europa e che, solo tre giorni prima, ha portato via anche sua moglie Edith, incinta di sei mesi.
“Vedere è qualcosa di più”, già. Esattamente cento anni fa non si spegneva soltanto uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo austriaco, ma soprattutto un pittore che, nel suo fulmineo eppure intenso percorso artistico, ha dimostrato come pochi altri di saper indagare il lato più intimo e recondito dell’esistenza umana, scrutandone e dissezionandone le emozioni, gli impulsi, gli aspetti più viscerali. Oltrepassando la cortina perbenista e conservatrice della Vienna di inizio secolo, l’anticonformista Schiele scava nelle zone d’ombra dell’io per dare vita a dipinti dalla forte carica espressiva, che ancora oggi turbano, ammaliano e fanno discutere. Mentre l’Impero austro-ungarico si dirige inesorabilmente verso la sua dissoluzione, egli impregna i suoi quadri di pulsioni erotiche, solitudine, inquietudine e disordine. Al corrosivo miscuglio di sfarzo e menzogna, oppone senza remore una libertà artistica e di pensiero tesa a fare tabula rasa di qualsivoglia accenno di moralismo o accademismo. Questa volontà di spogliarsi dei finti orpelli, del resto, è in linea con il clima del suo tempo: sono gli anni immediatamente successivi all’avvento della psicanalisi freudiana, anni in cui lo scrittore viennese Arthur Schnitzler afferma che “l’ordine è qualcosa di artificioso; il naturale è il caos”. Così, dopo l’adesione alla Secessione, sostenuto dall’amico Klimt, Schiele approda all’Espressionismo, fino a giungere a uno stile totalmente suo, slegato da qualsiasi precetto, prassi o imposizione.
Difatti, l’intreccio ineluttabile tra vita e morte è un fil rouge che percorre tutta l’opera del pittore viennese e che scaturisce in parte anche dai tormenti patiti, primo fra tutti la perdita del padre, che muore di sifilide quando Schiele ha 14 anni. Non a caso, l’artista si autoritrae per la prima volta proprio dopo questo lutto. Seguiranno tantissimi altri autoritratti ‒ oltre 170, un numero che non ha eguali nella storia dell’arte ‒ esito di uno scandagliamento quasi ossessivo del proprio io interiore. Ad accomunarli sono alcuni caratteri ricorrenti: lo sguardo allucinato, il corpo scomposto, spesso nudo e frammentario, l’aria di un’anima alla deriva. Ne Il poeta (1911), per esempio, uno dei suoi autoritratti più cupi e affascinanti, Schiele si mostra seminudo, come intrappolato in uno spazio soffocante, con la testa piegata su un lato e le mani dalle lunghe dita ossute in una posa artificiosa.
La stesso conflitto fra Eros e Thanatos, lo stesso segno tagliente, aspro e nervoso li ritroviamo anche nei ritratti delle sue giovani modelle: dalla sorella minore Gertrude, sua prima modella, alla fedele musa-amante dai capelli rosso fuoco Wally Neuzil (è lei nello splendido dipinto La morte e la fanciulla, del 1915), fino ad Edith Harms, divenuta poi sua moglie.
Sebbene Schiele abbia dipinto anche diversi emblematici paesaggi, è sulla figura umana, in particolare quella femminile, che si concentrano la sua attenzione e il suo esasperato slancio creativo (il corpus di opere lasciato, nonostante la sua breve esistenza, è impressionante). E anche quando si tratta di raffigurare i rapporti affettivi, che sia il legame tra due amanti (come ne L’abbraccio del 1917) o quello madre-figlio (come in Madre e bambino II del 1912), l’angoscia è palpabile, la tensione non si stempera.
È proprio per le sue figure spigolose, disarticolate, livide e scandalose che Egon Schiele viene principalmente ricordato, ed è a queste che molti artisti successivi hanno guardato: basti pensare a nomi come Günter Brus, tra i più radicali esponenti dell’Azionismo viennese, ma anche a Francis Bacon, Louise Bourgeois, Sarah Lucas, Berlinde De Bruyckere, solo per citarne alcuni.
Ritratto di Egon Schiele
RSI Cultura 12.08.2024, 18:50
Così moderni e “oltre” per la loro epoca, i ritratti di Schiele sembrano dipinti l’altro ieri e continuano tuttora ad essere oggetto di censure. “Sorry, 100 years old but still too daring today” si leggeva nei recenti manifesti pubblicitari per il centenario del Modernismo viennese affissi nella metropolitana londinese. Esibivano alcuni celebri nudi del pittore maudit e per questo non hanno superato l’esame di “moralità” delle autorità inglesi. L’ente del turismo viennese ha quindi pensato bene di modificarli apponendo il suddetto messaggio a copertura delle parti intime e ricorrendo all’hashtag #ToArtItsFreedom. Anche da questa vicenda si comprende come Egon Schiele sia uno di quei pochi, eccezionali artisti capaci di trascendere il proprio tempo.
“L’arte non può essere moderna, l’arte appartiene all’eternità”, scrive l’artista nell’aprile 1912 mentre è in carcere, con l’accusa, poi decaduta, di aver sedotto una minorenne, e per il ritrovamento di innumerevoli “disegni pornografici” nel suo studio. Per alcuni sarà anche sgradevole, per altri riprovevole o inaccettabile, ma non c’è dubbio che l’arte di Egon Schiele appartenga a buon diritto all’eternità.