Teatro

La “crudeltà” necessaria

Dopo di lui, il “dio selvaggio”: Antonin Artaud e il teatro come “pestilenza”

  • 30 marzo, 17:00
  • 31 marzo, 08:55
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Di: Mattia Mantovani 

Non è mai semplice indicare con assoluta precisione gli scarti e le cesure che si verificano nel divenire storico, fissando e insieme evidenziando in maniera univoca i momenti che segnano un sostanziale mutamento delle prospettive e delle coordinate. Una simile difficoltà parrebbe ancora più marcata nel caso di un contesto per sua natura magmatico e inafferrabile come il teatro, che si sostanzia di quello che Peter Brook aveva felicemente definito lo «spazio vuoto».

E invece, per un curioso paradosso ma soprattutto per un concatenarsi di eventi, proprio nel caso del teatro moderno è possibile indicare con estrema precisione il momento in cui tutto cambia e niente è più come prima. Il preludio, per così dire, è rappresentato negli ultimi due decenni dell’Ottocento dall’irruzione sulle scene dell’Europa continentale (in particolare a Parigi, la capitale culturale che dettava il tono e i tempi) di Henrik Ibsen e August Strindberg, i “rivoltosi scandinavi” che provenendo dall’estremo nord avevano situato all’interno di una prospettiva completamente nuova e impensata non solo l’idea di messinscena, ma anche – e conseguentemente – l’immagine dell’uomo.

I drammi di Ibsen, infatti, avevano rotto radicalmente con gli stilemi romantici e avevano mostrato fino a che punto la famiglia come istituzione e il cosiddetto “salotto borghese” fossero un universo concentrazionario e un luogo di patenti ingiustizie e sopraffazioni, mentre Strindberg, col suo teatro naturalistico e poi col teatro onirico, aveva conferito nuovi contorni all’essere umano, non più individuo a tutto tondo ma piuttosto un congregato di elementi sparsi e irriducibili gli uni agli altri, un «carattere senza carattere»: «esistenze che si consumano nelle patologie», le definì giustamente Hugo von Hofmannsthal. Non a caso, come riferiscono le cronache dell’epoca, nel 1892 il pubblico di Milano accolse la prima italiana di Spettri di Ibsen, un testo teatrale nel quale il morbo gallico diventava specchio e metafora di un più ampio disagio della civiltà, chiedendosi «se in ultima analisi si fosse a teatro oppure all’ospedale».

La nascita vera e propria del teatro moderno, sulla scia di questo preludio, è invece ravvisabile in quello straniante e pressoché indefinibile esperimento che rimane Ubu re di Alfred Jarry, che venne messo in scena per la prima volta al Nouveau Théâtre di Parigi il 10 novembre 1896. Con Jarry e il suo Ubu re saltano definitivamente le categorie della tradizione e vengono abbattuti gli steccati, e da quel momento in poi tutto diventa possibile. Nasce il teatro moderno e si apre la strada che nel corso del secolo breve sarà percorsa da tutte le avanguardie, a partire dall’espressionismo fino al teatro dell’assurdo e anche oltre, con varie declinazioni a partire dalle differenti sensibilità dei maestri della ricerca come Jerzy Grotowski, il Living Theater, il già ricordato Peter Brook, Eugenio Barba e Luca Ronconi, solo per ricordare alcuni nomi, ma l’elenco sarebbe molto lungo.

06:29

Per Alfred Jarry, 1873-2023

Alice 16.09.2023, 14:50

  • Massimo Zenari

Tra gli spettatori della prima di Ubu re c’era anche il poco più che trentenne poeta irlandese William Butler Yeats, che nel 1923 vincerà il Premio Nobel per la letteratura e molti anni dopo, nelle sue memorie, descrisse in questi termini la serata: «Fra il pubblico volano minacce. Gli attori vanno visti come bambole, giocattoli, marionette, e ora saltano tutti come ranocchie di legno, e vedo bene che il personaggio principale, una sorta di re, ha per scettro uno scopino da gabinetto. Che altro è ancora possibile? Dopo di noi, il dio selvaggio».

La definizione, poi diventata proverbiale, restituisce la percezione che una nuova epoca si sta aprendo ed è assolutamente necessario battere nuove strade e dirigersi verso orizzonti inesplorati, in nome di una nuova idea della realtà e del teatro che la rappresenta: basta con la psicologia, basta coi capolavori imbalsamati che non dicono più nulla alla sensibilità moderna, basta con le parole che si atrofizzano prima ancora di designare le cose, e soprattutto basta con un teatro che blandisce il pubblico, conferma le élites culturali nel loro conformismo e non fornisce alcuna lettura alternativa dell’esistente (come dirà giustamente un innovatore del rango di Bertolt Brecht: «Il vero peccato capitale consiste nel considerare l’esistente come l’unica realtà possibile e immaginabile»).

Poco più di un trentennio dopo, nel maggio del 1927 (ma i presupposti teorici risalgono al 1925, quindi esattamente un secolo fa), Antonin Artaud darà vita al “Teatro Alfred Jarry” e farà del “dio selvaggio” una coordinata che da quel momento, proprio per la sua fortissima connotazione utopica, diventerà assolutamente imprescindibile, al punto che è lecito parlare di un teatro prima e dopo Artaud. Ha scritto lo stesso Artaud nel manifesto programmatico del “Teatro Alfred Jarry”: «Le convenzioni teatrali hanno fatto il loro tempo. Al punto in cui ci troviamo, siamo incapaci di accettare un teatro che continui a barare con noi. Abbiamo bisogno di credere a ciò che vediamo. Un spettacolo che si ripete ogni sera secondo riti sempre uguali, sempre identici a se stessi, non può più avere il nostro consenso. Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita».

L’azione al posto del testo scritto, il gesto irrelato, sulla scena, come «un segnale che attraversa le fiamme», l’arte come utopia, il teatro concepito come una deflagrazione, un’epidemia, una «pestilenza» che si deve abbattere sugli spettatori: nato nel 1896 e morto nel 1948, al termine di una vita tanto breve quanto movimentata e segnata da lunghi ricoveri in manicomio, Artaud ha indicato un percorso talmente nuovo che nemmeno lui, in fondo, sapeva dove avrebbe portato. L’esperimento del “Teatro Alfred Jarry”, troppo avanzato e innovativo per l’epoca, durerà pochissimo, ma cinque anni dopo, nel 1932, Artaud farà un altro tentativo col “Teatro della crudeltà”, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto rompere col «teatro puramente descrittivo e narrativo, che racconta soltanto psicologia», per aprirsi a nuove prospettive: «”Teatro della crudeltà” vuol significare teatro difficile e crudele. E, sul piano dello spettacolo, non è questione della crudeltà che possiamo esercitare gli uni sugli altri squartandoci vicendevolmente, bensì di quella assai più terribile e necessaria che le cose possono esercitare a nostro danno. Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del teatro».

È l’idea della roughness, la “ruvidezza” che Peter Brook, il suo seguace più coerente, tentò di realizzare negli anni Sessanta formando insieme al Royal Shakespeare Theatre un autonomo “Teatro della crudeltà” declinato nel senso dell’“ombra” e del “doppio” e cioè di quelle dimensioni che secondo Artaud il teatro tradizionale (il “teatro mortale”, direbbe sempre Brook) aveva colpevolmente rimosso. Si tratta di una consapevolezza che Artaud ha espresso in maniera molto incisiva e penetrante proprio all’inizio del manifesto programmatico del “Teatro Alfred Jarry”: «Il teatro partecipa del discredito in cui, una dopo l’altra, cadono tutte le forme d’arte. In mezzo alla confusione, all’assenza, al deterioramento di tutti i valori umani, all’angosciosa incertezza in cui siamo immersi riguardo alla necessità e al valore di questa o quell’arte, di questa o quella forma di attività dello spirito, la più colpita è probabilmente l’idea di teatro. Si cercherebbe invano nella massa di spettacoli presentati ogni giorno qualcosa di adeguato all’idea che ci si può fare di un teatro assolutamente puro».

Resterebbe da chiedersi cosa rimane, a distanza di un secolo. “Tanto” e “poco”, si potrebbe forse rispondere. Una cosa è comunque certa: quello indicato da Artaud è un percorso davvero impervio, perché obbliga a un ripensamento radicale. Per certi versi è anche pericoloso, perché l’esaltazione del dato irrazionale non è mai priva di conseguenze (lo fa capire Nanni Moretti, proprio citando Artaud, in una divertente quanto memorabile scena del film Io sono un autarchico). Ma la sua fascinazione rimane intatta: il teatro della crudeltà, fatta eccezione per il testo teatrale I Cenci e il radiodramma Per farla finita col giudizio di dio, non ha mai trovato un’applicazione pratica, nella concretezza della scena. Eppure non c’è un solo grande uomo di teatro della seconda metà del Novecento che non si sia confrontato a fondo con le suggestioni di Artaud. Un secolo dopo, il suo appello continua quindi ad esprimere un’esigenza ineludibile, perché oggi più che mai «non siamo liberi» e «il cielo può sempre cadere sulla nostra testa» (ammesso che non sia già caduto). E questo è il “tanto”.

Ma c’è anche il “poco”, ravvisabile nel fatto che un po’ ovunque, dopo il declino delle avanguardie, il teatro rischia sempre più di diventare un “teatro mortale”, come direbbe Brook, quasi un anacronismo, e allo stesso modo anche le suggestioni di Artaud rischiano di rimanere tali: letteratura, belle parole, grandi teorie che tali sono rimaste, nulla più. Utopie, insomma. Eppure l’utopia, comunque la si voglia declinare e circoscrivere, rimane il presupposto per una vita di progetto e speranza, ed è precisamente una simile utopia che si profila dall’esperienza umana e artistica di Artaud.

Lo stesso Artaud l’ha perfettamente sintetizzata in un passo di una lettera del febbraio 1944, indirizzata a un’amica: «Ho finito per imparare che gli esseri si credono ancora vivi e sono morti. Vivono nella falsa credenza che la vita possa durare e loro abbiano un destino da realizzare su questa terra. Ma io non ci credo, perché l’anima di tutti loro ha lasciato la vita. Per me gli uomini vivi non sono altro che spettri, vale a dire demoni che si ostinano a vivere come se fossero ancora uomini mentre ormai non sono altro che demoni. E noi, noi siamo tutti in questa situazione. E io pure. Passo il mio tempo a farmi tornare l’anima nel corpo, perché essa mi lascia a forza di desolazione, di sofferenza e di orrore». Far tornare l’anima nel corpo: è un’utopia che Artaud ha perseguito senza riuscire a realizzarla, ma ciò non significa che non si debba continuare perseguirla, perfino contro ogni evidenza, dentro e fuori il teatro, nella sordida, abietta e normalissima “crudeltà” di ogni giorno.

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