La psicoanalisi ci ha insegnato che “siamo parlati”, che il discorso non ci appartiene in modo cosciente, che c’è qualcosa d’altro che spinge, da sotto, e agita il linguaggio. Prima della psicoanalisi era stato un ragazzo francese, a dirlo. Sui banchi del collegio di Charleville, nel 1871, quest’adolescente scriveva al suo amato professore di retorica: «è falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. (…) IO è un altro». Sovvertendo il celebre «cogito ergo sum» che, per quanto implicasse la messa in discussione di tutto, era comunque stato formulato – oltre due secoli prima – su un’idea di sapere precedente alla scoperta dell’inconscio, Arthur Rimbaud anticipava così una delle note affermazioni di Freud: «l’io non è padrone in casa sua».
Nel corso delle celebrazioni per l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, lo scorso gennaio si è visto Elon Musk manifestare la propria soddisfazione attraverso un gesto che ha fatto immediatamente discutere: il saluto romano. A ciò è seguita una diatriba mediatica a colpi di clic, nella quale Musk ha negato qualsivoglia riferimento al nazifascismo. Fra le altre cose, Andrea Stroppa, referente italiano del megamultimiliardario, ha furbescamente (e biecamente) giustificato Musk sostenendo che questi intendeva dire – come appena fatto a parole – «voglio darti il mio cuore», ma essendo autistico aveva enfatizzato a gesti.
Ciò detto, noialtri miserabili mortali non possiamo pretendere di sapere cosa volesse o non volesse chi, allo stato attuale, sembra preconizzare il mondo secondo Aldous Huxley (o, meglio ancora, Ray Bradbury, vista la spinta marziana in corso). Impotenti di fronte alla rete, da tempo non solo non distinguiamo il vero dal falso, ma, per usare una formula di Hannah Arendt recentemente riportata da Saviano nel commentare la questione, percepiamo quanto tutto questo sia oggi «irrilevante». Se però consideriamo quanto detto in apertura, possiamo presto renderci conto che vale anche altro perché, se «l’io non è padrone in casa sua», in casa nostra invece, sulle ceneri del ‘900, quel gesto ha sempre voluto dire solo una cosa e che Musk lo utilizzi «per misurare la sua forza» è comunque significativo.

Ciò detto, se per parlare di Stefano Massini scelgo di partire da qui, c’è una ragione precisa. L’ultimo spettacolo del drammaturgo di lingua italiana «più rappresentato al mondo» tratta appunto di nazismo e, più specificatamente, di Adolf Hitler e del suo celeberrimo Mein Kampf. Autore prolifico, scoperto, ai suoi esordi, attraverso l’assegnazione del premio Pier Vittorio Tondelli 2005, Massini occupa da tempo un posto di primissimo piano nel panorama della scena italofona: da assistente di Luca Ronconi ne è diventato l’erede più prossimo con la Lehman Trilogy (2015), imponente drammaturgia a tema storico-economico per la quale, com’è noto, Ronconi firmò la sua regia di fine carriera. Divenuto in seguito consulente del Piccolo Teatro, col proprio lavoro Massini si è guadagnato numerosissimi premi, fra cui due Ubu e il Tony Award 2022.
Ma non è tutto: fedele a quella tensione che ha caratterizzato gli esordi di una scrittura teatrale distintasi da subito per il suo voler «competere con il romanzo», pressoché in concomitanza con la realizzazione dell’acclamata Lehman Trilogy Massini ha varcato le Colonne d’Ercole della narrativa con Qualcosa sui Lehman (Mondadori, 2016), libro pure pluripremiato nel quale si mescolano registri disparati quali la poesia, il saggio e la drammaturgia.
A questo imponente testo ne è poi seguito un altro, sempre di grande interesse e attorno al quale (o a partire dal quale), come nel caso della storia dei fratelli Lehman, Massini ha elaborato un discorso per la scena: parliamo de L’interpretatore dei sogni (Mondadori, 2017), opera d’invenzione che prende le mosse – non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo – proprio dalla genesi della più celebre opera dell’ideatore della psicoanalisi.

Lo scorso ottobre però, nell’affrontare il Mein Kampf, Massini si è mosso in modo diverso rispetto a quanto fatto con Freud attraverso il suo romanzo, dove ha dato voce ai molti anonimi casi clinici che trapuntano Die Traumdeutung (non, quindi, una romanzata – e, francamente, impossibile – versione de Il caso di Dora o de L’uomo dei lupi, ma un universo taciuto sul quale lo scrittore si è proposto di gettare luce propria). Infatti, il testo sul quale si regge lo spettacolo, per quanto frutto dello studio dei discorsi del Führer e dei suoi fedelissimi, è esclusivamente edificato sulle parole che compongono l’autobiografia-manifesto del nazionalsocialismo (a eccezione del breve preambolo introduttivo).
D’altra parte, l’intento di Massini era esplicito: sperimentare, oggi, gli esiti di una messa in circolazione di quelle parole; comportarsi «come un vaccino» e creare una risposta immunitaria alla virulenza del discorso nazifascista (idea che ricorda un poco quanto raccontato ne L’onda, romanzo di Todd Strasser da cui è stato tratto l’omonimo film di Dennis Gansel). Ecco che allora, di nero vestito e a cavallo di una troppo perfetta, bianca pedana a firma di Paolo Di Benedetto, l’autore-attore traghetta la platea fra la Vienna di inizio secolo e Monaco di Baviera, dove ha luogo il romanzo di formazione di un giovane pittore fallito e reduce di guerra. Si tratta sostanzialmente di un viaggio dentro alla frustrazione e al sentimento di inferiorità: nessun particolare riferimento al contesto storico-sociale, solo le parole di Hitler a fare da guida nel buio.
Mi preme dire subito che lo spettacolo è molto bello; forse pure troppo. È, anche, uno spettacolo “giusto”, vista l’epoca oscena che ci è toccata in dote. La sapiente scrittura dell’autore, la sua interpretazione del Führer e della sua furia messianica («Adolf furious from perception», scriveva Pound) sono di grande intensità e calibrata misura. Il raffinato tappeto sonoro a cura di Andrea Baggio e le luci di Manuel Frenda non potevano essere migliori. Eppure, nonostante Massini (ovviamente) arrivi preparatissimo rispetto al materiale eletto, a pelle (e a posteriori) è come se qualcosa non quadrasse.
Forse perché raccontare Hitler unicamente dietro la lente d’ingrandimento del caso umano da cui scaturirono parole gravide (come sempre lo sono) di conseguenze è un rischio. Se, come riportato nella sinossi del Piccolo facendo eco a Primo Levi, è vero che «la comprensione del meccanismo è l’unico antidoto al suo replicarsi», allora occorre chiedersi cosa significhino, oggi, termini quali “comprensione” e “conoscenza”. Specialmente quand’è stata proprio la psicoanalisi – o una certa psicoanalisi – a rivelarci che la “conoscenza” non basta, perché il cosiddetto «meccanismo» è acefalo e implacabilmente procede. Quindi? Come uscirne? Vicolo cieco.
In una sua recensione allo spettacolo apparsa su www.multiversi.net, Bruno Milone ha evidenziato come «ciò che sembra sfuggire alla lettura di Massini è quanto il personaggio di Hitler sia costruito. Nel Mein Kampf, il futuro Führer della Germania sta edificando il proprio mito, quello del puro eroe, analogo al Parsifal di Wagner con il quale si voleva immedesimare, salvatore della patria tedesca. Con ciò collegandosi consapevolmente al culto degli eroi proprio dell’epoca, solo rafforzato dalla recente guerra mondiale». In parole povere «Hitler è un bugiardo, mente sulla sua povertà come sull’origine del suo antisemitismo e su altri aspetti della sua vita viennese».
Ecco quindi – seppure parzialmente – svelato l’arcano? Narrando il giovane Hitler attraverso le sole parole del Mein Kampf, volente o nolente, al di là delle sue intenzioni, Massini rischia di allinearsi a quell’irrilevanza nel distinguere il vero dal falso a cui si è accennato in apertura e, conseguentemente, di cadere, ancora una volta, «nelle trappole hitleriane» di una propaganda efficace, la cui arma è stata la banalità, più che del male, del mentire? In parte sì, ma forse c’è anche altro.

La conoscenza auspicata da Levi, quella di cui, nonostante tutto, abbiamo davvero bisogno, probabilmente non è quella che riformula per algoritmi quanto già sappiamo, poiché sapere, alla fine dei conti, non sembra salvarci da un bel niente. Infatti, oggi siamo perfettamente consapevoli che Hitler era un criminale bugiardo e che il suo libro fa breccia perché «parla alla pancia». Non c’è bisogno che nessuno ce lo ripeta, perché è pubblico dominio e non ci mette al riparo dallo scoglio contro il quale la psicoanalisi, a proposito di «pancia», nel suo ultimo approdo ci fa incorrere: la scoperta, appunto, di un «meccanismo» strutturale che, lasciato a sé stesso, non imbrigliato nel senso, è solo ottusa ripetizione. Il mondo che ci circonda ne è la prova: se la verità non ha presa, ciò che ha presa, invece, è quanto ingozza l’ingranaggio di un procedere mortifero senza-scopo, del quale i nazisti, con la loro ricerca di una funzionalità suprema, furono sì dei pionieri provetti.
Per concludere, ora che la contemporaneità ci sbatte letteralmente in faccia la morte del peso della verità, del peso del senso, le parole del Mein Kampf massiniano assumono uno strano, inquietante tono al di là del volere del loro autore: «Nella mia battaglia non v’è catastrofe se non l’irrilevanza», recita il testo. Non è però nei termini intesi da Hitler che quest’ultima – l’irrilevanza – ci riguarda. Piuttosto in quelli che Roberto Saviano, attualmente, rifacendosi alla Arendt, riporta di fronte all’«Heil Hitler» dell’uomo più ricco del mondo.
“Il Mein Kampf” di Massini
Alphaville 23.10.2024, 18:00
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Il palcoscenico del corpo
Charlot 16.03.2025, 14:35
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