Arte e Spettacoli

Le photographe

In visita da Alexandre Zveiger

  • 22 dicembre 2023, 14:49
  • 25 dicembre 2023, 20:10
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Di: Daniele Bernardi 

Quando si entra nello studio di Alexandre Zveiger si è subito colpiti da una recente serie di fotografie di grande formato esposte sulla parete di destra. Su ciascuna di esse figura una donna nell’atto di tagliarsi le unghie dei piedi. Se si chiede al fotografo luganese di che si tratta, lui, col suo inconfondibile timbro vocale, risponde che fa parte dei suoi «personal project», creazioni alle quali si dedica al di là della dimensione “meramente” professionale della sua attività.

Così, in un mondo mediatico che solitamente ci offre l’immagine di un femminile sempre sensualmente performante e sul piede di guerra, Alexandre preferisce realizzare un «work in progress» ben più autentico e, com’è tipico del suo stile, ironico. «La serie si chiama Intimità nascosta», ci dice ancora indicando le immagini. «Ho cominciato chiedendo loro di farsi la pedicure negli spazi di casa. Poi, man mano che entravo in confidenza, ho iniziato ad allargarmi immortalando dettagli, situazioni e altro. Ne è nata una serie di cartoline autofinanziate».

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Per chi conosce il suo lavoro – così come la sua persona – questa impresa risulta perfettamente in linea col percorso di Alexandre Zveiger: da trent’anni sulla piazza ticinese e, più in generale, elvetica, ha sempre avuto l’abitudine di realizzare questi “bozzetti” o, come direbbe lui, “scenette” con cui illustrare cartoline, materiali pubblicitari, copertine di riviste e libri. Ma se è vero che ogni vocazione espressiva ha una fonte, qual è stata la sua?

«Ho scelto la fotografia perché ero un pessimo studente. Quando mio padre mi chiese cosa volevo fare, risposi che ancora non avevo idea. Lui insistette dicendo “devi saperlo”. A quel tempo mi ero già innamorato della camera oscura attraverso un incontro: dopo una gita, un compagno si era presentato con una panoramica composta da varie immagini e la cosa mi aveva colpito. “Hai fatto tutto tu? Anche le stampe?” avevo chiesto. “Sì’” aveva risposto. Allora domandai se potevo provare e quello fu l’inizio: scattavo fotografie alle feste per poi rivenderle il giorno dopo ai compagni, così da ripagarmi il materiale che era caro. Mi piaceva. Per questo, anche se avevo fantasticato di diventare un attore, messo alle strette da mio padre ho risposto: “Farò il fotografo”».

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Formatosi esclusivamente attraverso il lavoro sul campo nella Milano della fine degli anni ‘80 (è stato assistente presso vari studi e laboratori, tra cui MDA e De Stefanis, seguendo molto l’ambito della moda) Alexandre Zveiger non è uno di quei fotografi a cui interessa cogliere l’attimo quanto, piuttosto, comporre l’immagine attraverso il suo rapporto con l’oggetto in questione: «Non sono uno che si nasconde. Chi si fa fotografare da me è ben cosciente di avere, in quel momento, un’interazione con la mia persona. Niente contro i reportage o simili, ma non mi appartengono. Io faccio reagire il personaggio».

Infatti moltissime sue realizzazioni potrebbero essere paragonate a una sorta di teatrino in cui i protagonisti vivono situazioni buffe, a volte surreali, delle quali sono gli applauditi interpreti: coppie di suore che si ubriacano in sauna, colletti bianchi che pagano la sosta per la propria poltrona parcheggiata sulle strisce, provocanti servette intente a stirare un capo d’abbigliamento sui passaggi pedonali del centro.

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Ma quando si interroga Alexandre su quelli che sono stati i suoi modelli di riferimento ci si rende conto che, da un punto di vista prettamente artistico, egli si è sempre affidato più al proprio gusto e a personali intuizioni che ad altro: «Potrei dire che mi hanno segnato Mapplethorpe e Oliviero Toscani, ma i nomi per me non sono così importanti. Ho sempre guardato ai lavori e non alle firme. Se mi dovessero chiedere di definire il mio stile lo potrei chiamare comico, ma non solo. Dipende dalle epoche della vita: il modo di fotografare cambia rispetto ai periodi. Certo è che, metodicamente, ho la tendenza a visualizzare il risultato prima di ottenerlo. Anche quando si tratta di un ritratto, so anticipatamente cosa voglio e cerco di arrivarci».

E quella del ritratto, assieme alla fotografia d’architettura della quale è oggi specialista (così come la riproduzione di opere d’arte), è una delle pratiche costanti di Alexandre: negli anni ne ha realizzati moltissimi, immortalando artisti, giornalisti ma pure gente comune di cui ha sempre saputo cogliere l’essenza. Il trucco, secondo il suo approccio, sta nell’esaltare il tratto predominante della persona – quello che potrebbe essere definito come una sorta di difetto – rendendolo segno distintivo. E per farlo è importante lavorare in tempi rapidi, poiché la naturalezza fa presto a perdersi quando si è in posa.

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Ciò che però forse più si distingue nell’insieme della produzione di Alexandre, oltre ai “bozzetti” ironici, sono quelle immagini nate da una personale necessità di sperimentare. Come la bellissima sequenza New Dimension – realizzata in pellicola ancora negli anni ‘90 – nella quale delle figure di nudo appaiono sospese tra l’estetica del sopraccitato Mapplethorpe e un quadro di Bacon. Oppure la serie Cessi che, similmente alla più recente Intimità nascosta, fa di quel luogo di passaggio che è il bagno il territorio prediletto.

E luogo di passaggio vorrebbe essere anche il possibile prossimo soggetto dei «personal project» di Alexandre Zveiger. Interrogato sul futuro, ecco che ci confida un’idea recente: «Prossimamente vorrei andare nelle metropolitane all’orario di punta e, da un punto sopraelevato, fotografare le masse che entrano ed escono. Ma non posso farlo da solo: se c’è una cosa che ho imparato è che un buon fotografo deve sempre avere dei collaboratori fidati. Da noi la maggior parte lavora senza e non so come facciano. Io credo invece che si debba essere in due. Un po’ come quando si esegue un ritratto: non puoi illuderti di fare da solo se hai qualcuno davanti».

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