Arte e Spettacoli

Liv Ferracchiati

Tra le pieghe delle convenzioni

  • 03.03.2023, 00:00
  • 09.01.2024, 12:15
Liv Ferracchietti copertina
Di: Elisabeth Sassi 

Per chi ha visto a teatro La tragedia è finita, Platonov una riscrittura del testo di Čechov oppure HEDDA. GABLER. Come una pistola carica, riscrittura del testo di Ibsen, magari, è successo di scorgere l’autore, Liv Ferracchiati s’intende, aggirarsi tra il pubblico mentre si era ancora intenti a prendere posto in platea e di scambiarlo così per un addetto di sala o per uno spettatore bizzarro. Può anche darsi che vi sia capitato di chiedervi se davvero quel gatto di cui parla nel bel mezzo di un dramma borghese ottocentesco fosse davvero il gatto dell’autore. E continuando con queste assurde supposizioni vi siete ritrovati a decidere, tra voi, che forse l’autore è più un tipo da cani, probabilmente pure allergico ai gatti. Delle volte invece, lo spazio dedicato all’improvvisazione si nutre direttamente della vitalità del pubblico: complice un colpo di tosse o una risata fragrante e si diventa, per pochi secondi, una comparsa all’interno di un testo irripetibile. Tutto questo è uno spicchio di ciò a cui ci ha abituati negli ultimi anni Liv Ferracchiati, autore, regista e performer selezionato dall’École des maîters per l'edizione speciale in tempo di pandemia diretta da Davide Carnevali, durante la quale Liv Ferracchiati ha scritto Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi, che ha da poco debuttato. Uno spettacolo ispirato all’ultimo progetto mai realizzato di Čechov, una pièce ambientata su una nave diretta al Polo Nord, un viaggio che Ferracchiati immagina collegato con il tentativo dei suoi tre personaggi di scongiurare una catastrofe climatica, mentre sperimentano però la fine di un altro mondo: quello delle gabbie di schema sesso-genere e del patriarcato.

Liv Ferracchiati ha fondato la compagnia teatrale The Baby Walk nel 2015, tra i loro numerosi spettacoli hanno dato vita anche a un’importante Trilogia sull’Identità composta da Peter Pan guarda sotto le gonne, sul tema dell’infanzia transgender, spettacolo premiato al Premio Nazionale Giovani Realtà del Teatro; il secondo capitolo, Stabat Mater con il quale Ferracchiati vince il Premio Hystrio Nuove scritture di Scena 2017 e l’ultimo capitolo, Un eschimese in Amazzonia che vince il Premio Scenario 2017. Ferracchiati è anche autore e regista di Pulp Hamlet, e ha curato la regia di Sulla sabbia di Albert Ostermaier al Piccolo Teatro Studio di Milano, progetto vincitore della Finestra sulla drammaturgia tedesca. Inoltre nel 2017, Stabat Mater è stato selezionato per la Biennale Teatro del 45° Festival Internazionale di Venezia da Antonio Latella insieme a Todi is a small town in the center of Italy e a Peter Pan guarda sotto le gonne.

Come ti sei avvicinato al teatro e qual è l’insegnamento più importante che ti accompagna nel tuo lavoro?

Una delle palestre per me più importanti è stato un laboratorio teatrale che ho frequentato al liceo. Ho avuto due maestri veramente in gamba: Francesco Torchia e Silvia Bevilacqua che mi hanno insegnato che il teatro è da una parte rigore e dall’altra estrema creatività; questi sono due pilastri che mi porto ancora dietro. Detto ciò, io ho iniziato a scrivere in forma dialogante per divertimento, già a dodici anni, ma forse anche prima; tuttavia, non avevo idea che fosse qualcosa di simile ai dialoghi teatrali. Io arrivo da una famiglia che non ha nulla a che vedere con il teatro, anche se tutti gli anni andavamo a vedere la stagione teatrale di Todi che era molto ridotta, cinque o sei spettacoli. Però ecco, non avevo collegato che quella cosa che facevo per gioco fosse in qualche maniera assimilabile al teatro. Poi finito il liceo ho fondato una compagnia con le persone che facevano parte del laboratorio teatrale, alcuni di loro poi hanno intrapreso percorsi da professionisti. Questa palestra da autodidatta per me è stata fondamentale, fare degli spettacoli senza avere idea di cosa stessi facendo mi ha portato ad apprendere delle nozioni, dei trucchi del mestiere, in una maniera per me sorprendete. Poi a venticinque anni sono entrato in Accademia Paolo Grassi e ho studiato Regia teatrale e oltre alla creatività ho capito cosa fosse quel rigore di cui mi parlavano i miei maestri al liceo.

“Mi fa male l’autofiction” è il titolo di un workshop che hai tenuto al Museo d’Arte di Mendrisio per le allieve di Luminanza, Reattore per la drammaturgia svizzera. Cosa ti affascina del genere dell’autofinzione?

Parto dalla premessa che non ho mai fatto autofinzione, né tantomeno spettacoli autobiografici, ma queste sono state etichette che mi hanno addossato ed è proprio per questo motivo che mi sono avvicinato a questo genere: perché mi tacciano di autofinzione. Così ho cominciato a interessarmi di questa materia, che ho trovato per certi versi anche esaltante, ma io non l’ho mai praticata. Anche nel mio spettacolo HEDDA. GABLER. Come una pistola carica, quando gioco interpretando Ejlert Løvborg e facendogli dire che lui fa autofinzione, la mia intenzione è ironica. L’autofinzione è un genere che adesso viene molto praticato, che a me piace intendiamoci, ma non credo di averlo mai fatto davvero, anche se in qualche maniera sicuramente cerco di utilizzare il mio filtro autorale e personale, quindi in parte la mia esperienza di vita, ma penso che lo facciano tutti quelli che scrivono e non credo sia per forza autonfinzione. Se tu vai in scena utilizzando il tuo nome non significa che sei davvero tu sul palco, perché ogni volta che entri in scena devi sottostare – volutamente e gioiosamente – a delle regole sceniche e poi, ora dico una cosa provocatoria: Dante nella Divina Commedia si chiama Dante, ma non credo potremmo rintracciare in tutto e per tutto la figura della persona Dante all’interno della sua opera.

Nemmeno nella Trilogia sull’Identità è rintracciabile l’autofinzione come invece ha sostenuto certa critica?

Nella trilogia assolutamente non c’è autofinzione, né autobiografia. Ovviamente io sono una persona transgender, però non significa che se l’autore è transgender come il personaggio allora sta facendo autobiografia, così come se una persona cisgender scrive di un personaggio cisgender non è detto che stia facendo autobiografia. Questo è un collegamento che in realtà viene fatto dagli altri per questioni di poco progresso su certi temi. Però sicuramente mettere in scena me crea l’equivoco. Io mi metto in scena perché non sono un attore e per me la parola sporcata dalla mia inabilità tecnica è interessante; fa porre l’attenzione sul fatto per me nodale, che sempre mi lavora sotto anche quando non lo tratto, ovvero che noi per fare teatro, così come per vivere, usiamo delle forme, delle convenzioni. Anche adesso io e te stiamo mettendo in scena una convenzione che è quella dell’intervista: tu scrivi, sei seduta, hai il registratore e io parlo. È una convenzione perché potremmo farla anche correndo questa intervista, ma invece la facciamo così e non ci verrebbe in mente di farla diversamente. Io mi metto sempre a fianco ad attori molto bravi in modo tale che quando arrivo io in scena ci sia uno stacco formale e in un qualche modo venga percepita come una non-forma, come una sporcatura, che poi in realtà – mi costa dirlo – diventa un altro tipo di forma.

Cosa succede quando queste convenzioni vengono messe in crisi attraverso delle sporcature?

La mia possibilità di improvvisare in quanto autore – e non come attore – fa sì che si crei per gli attori in scena e anche per il pubblico un costante pericolo, inteso come un sentirsi sempre in bilico: non sappiamo cosa succederà il secondo dopo – non lo so nemmeno io – e questa cosa qui tiene attiva la tensione, crea un collegamento energetico tra palco e spettatori, tra gli attori stessi che così sono costretti a non adagiarsi su qualcosa che conoscono perfettamente, ma che invece cambia continuamente. Ovviamente questa cosa delle forme e delle convenzioni si riallaccia a quello che è un macro-tema della mia ricerca, cioè l’identità: che cos’è, se esiste e a che serve.

Il tema dell’identità può essere un tema molto esteso e stratificato. La tua ricerca sotto quale punto di vista interroga il tema dell’identità?

Io sono sempre stato molto interessato a come formiamo l’identità. In quella parentesi della mia vita nella quale ho lavorato alla Trilogia sull’Identità, ero interessato all’identità di genere. Quello che però mi incuriosisce dell’identità è come noi ci danniamo per trovarne una, per inseguire il nostro vero io – tra molte virgolette – come ci affanniamo alla ricerca dell’autenticità, un’altra parola molto controversa, forse appartenente all’ambito fantascientifico, perché l’autenticità è difficile trovarla, perché noi siamo una serie di forme e sostrati che ci hanno tramandato, che piano piano cominciamo a conoscere con l’età adulta per poi cercare di liberarcene e costruirne degli altri. Ma anche quando ricostruiamo un’altra identità resta comunque un insieme di forme che siamo costretti a indossare per comunicare noi stessi. Questo perché, come in arte, il contenuto riusciamo a esprimerlo solo attraverso la forma, il contenuto è qualcosa di impalpabile. Quindi il contenuto che cerchiamo è qualcosa di artificioso, non è niente di che, però la prima volta che ti confronti con questa consapevolezza la reazione è forte.

In particolare, nella Trilogia sull’Identità, come indaghi il tema dell’identità di genere?

La Trilogia sull’Identità è un lavoro nato con la compagnia The Baby Walk, il primo dei tre spettacoli si chiama Peter Pan guarda sotto le gonne, è un primo capitolo che parla della preadolescenza ed è un parallelismo con il Peter Pan di J. M. Barrie, dove però questo Peter Pan è un bambino che non vuole crescere perché percepisce il suo corpo non andare nella stessa direzione della percezione di se stesso dal punto di vista dell’identità di genere. Il bambino essendo ancora piccolo, preadolescente, non ha tutti gli strumenti per dominare con la parola questo suo senso di inadeguatezza rispetto a quello che vede attorno a sé. La parola portata in scena è molto scarna e viene data molta importanza alla danza; infatti, la protagonista era la danzatrice e attrice, Alice Raffaelli nel ruolo di Peter Pan.

Il secondo spettacolo si chiama Stabat Mater, è un testo più canonico, di prosa, perché in questo caso m’interessava lavorare sulla parola. Il protagonista è un uomo transgender, non in transizione fisica. In scena vediamo un’attrice, ma siccome il suo corpo non corrisponde a ciò che il protagonista vuole mostrare, finisce per performare la sua identità attraverso la parola. Di fatto il racconto ruota intorno a come lui si liberi di un’identità femminile per assumere un’identità maschile per finire ad essere però vittima degli stereotipi dell’identità maschile. Questo perché essere uomo o essere donna di per sé non significa niente, per nessuno, non solo per le persone transgender. Almeno idealmente, solo che ancora bisogna lottare per conquiste politiche di base e, quindi, affermare la pluralità identitaria è ancora fondamentale.

Arrivando poi al terzo spettacolo della Trilogia sull’identità il protagonista, infine, si relaziona con la società.

Sì, il terzo spettacolo Un Eschimese in Amazzonia, racconta il rapporto tra l’io – della persona transgender – e la società. Riprendo un’immagine di Porpora Marcasciano, che crea una metafora tra le persone transgender e gli eschimesi, i quali vivrebbero un’esistenza molto serena se non fosse che la società è impreparata ad accoglierli. Infatti, sul palco vediamo come questa persona è attratta dalla società e come ne vuole essere assimilata e dall’altro lato come anche la società è attratta dalla persona transgender e ne vuole scoprire di più, anche con un certo prurito insomma. Per mettere in scena questo rapporto si è lavorato su un linguaggio più di ricerca, più performativo. La società era rappresentata da quattro persone che andavano a creare un coro, vestiti tutti con delle magliette blu che ricordavano un po’ le maglie dell’Italia, che si muovevano in maniera un po’ più standardizzata, all’unisono, con un linguaggio cadenzato, ritmato, musicale, un po’ spersonalizzato, anche se poi alla fine dello spettacolo avviene un rovesciamento. Invece l’Eschimese, che interpretavo io, lavorava totalmente sull’improvvisazione. Tutto il suo parlare al pubblico, senza quarta parete, era totalmente incentrato sull’improvvisazione. Tranne alcune parole chiave che erano utili a innescare poi il meccanismo del coro e un passaggio dove simulavo una confessione molto privata, molto intima, dettagliata con parti pruriginose, ma in realtà quella era l’unica parte di testo recitata a memoria perché era tratta da Testo tossico di Paul Preciado. Quindi laddove la gente credeva fosse una mia confessione al pubblico in realtà erano le parole di Preciado. L’obiettivo finale della trilogia era sì parlare del tema dell’identità di genere, ma farlo in una maniera diversa da come viene trattato di solito, cioè il transgenderismo non trattato come qualcosa fuori dalla norma, ma raccontarlo nella sua quotidianità e normalizzarlo perché più conosci l’argomento più di fatto riconosci che in futuro non ci sarà proprio più niente da dire.

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