Arte

Picasso, Modigliani e le sardine

Nella Parigi degli artisti affamati (e) di fama raccontati da Jacopo Veneziani

  • 1 novembre, 13:28
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Modigliani, Picasso e André Salmon al Café La Rotonde, 1916.

Di: Lucrezia Greppi 

Artisti squattrinati, vagabondi e veri e propri straccioni, pronti a barattare la propria arte, nei momenti più bui, per un pasto caldo o un bicchiere di assenzio, nelle più sgangherate osterie della “Ville Lumière”: sono loro, questi strani individui a cui mai nessuno avrebbe dato un soldo, ma che avevano stoffa da vendere, i protagonisti de La grande Parigi (Feltrinelli 2023) di Jacopo Veneziani e del suo spettacolo, Parigi, andato in scena a Bellinzona, nell’ambito di Sconfinare Festival, ed ora in tournée in tutta Italia. Un viaggio che inizia all’ombra della quinta Esposizione universale e sulla scia di Pablo Picasso ed Amedeo Modigliani, attorno a cui gravitavano gli altri insospettabili pionieri dell’arte moderna. Non poteva che essere Parigi, quella «gigantesca», «mostruosa» e «sublime» città, dove, nelle parole di Paul Gsell, ribollivano «i piaceri, i dolori, le forze attive, le febbri dell’ideale», l’epicentro di questa rivoluzione e l’origine di quel «morbo» che non risparmiò nessuno. La «mania di andare a Parigi», come la definì il poeta Jaime Sabartés, contagiò l’intero globo e si irradiò da locali tutt’altro che chic (Le Zut, Le Dôme, La Rotonde, il Lapin Agile, la Closerie des Lilas) e baracche fatiscenti (Il Bateau-Lavoir, il Delta, La Ruche) disseminati tra Montmartre e Montparnasse. Ricettacoli, questi, di scrittori, intellettuali, scultori e pittori, provenienti da mezzo mondo perché, come disse Gertrude Stein, la capitale francese era l’unico posto «dove bisognava essere per essere liberi». La libertà ha il suo prezzo, e tutti erano disposti a pagarlo, fino all’ultimo centesimo.

C’è chi vi arriva coperto di fuliggine dalla testa ai piedi, reduce da un viaggio di trenta ore nello scompartimento di terza classe di un convoglio proveniente da Barcellona (Picasso e Casagemas), chi vi giunge travestito da frate, dopo aver disertato il servizio militare ed aver venduti il cavallo e l’uniforme (Manolo) e chi, non potendosi permettere il biglietto del treno, raggiunge l’ambita meta a piedi, dalla Lituania (Soutine) o da Bucarest (Brâncuși). Schegge solitarie di cui la storia si sarebbe presto dimenticata non fosse stato per i grandi e piccoli “alleati” che incontrarono durante il loro cammino: collezionisti, galleristi, mercanti d’arte, imprenditori virtuosi, mecenati, critici d’arte e letterati contribuirono alla loro fortuna, tanto quanto i generosi proprietari delle osterie in cui, in periodi di magra, potevano sfamarsi con pochi spicci, e la solidarietà della gente comune. Tra questi, Frédéric Gérard di Le Zut, tappa fissa della “banda” di Picasso (Jacob, Manolo, Pichot, Durrio, Soto, Vlaminck, Derain), che aveva riservato una saletta per i suoi illustri commensali; Marie Vassilieff, che allo scoppio della guerra trasformò il suo atelier in una mensa cooperativa per sfamare i suoi colleghi (Picasso, Braque, Léger, Modigliani, Zadkine); e il rigattiere Eugène Soulié, che impedì a molti artisti di morire di fame, comprando loro disegni, acquarelli e tele.

Jacopo Veneziani

Jacopo Veneziani

  • IPP/MIPA MILANO 2022

A svolgere un ruolo determinante nelle carriere delle giovani promesse, in cambio di una misera percentuale sui prezzi dei quadri, fu Berthe Weill, «una delle più grandi talent scout del ventesimo secolo»: fu la prima a promuovere i dipinti di Toulouse-Lautrec e ad esporre i quadri delle allora ignorate donne pittrici, dei Fauves e dei cubisti. Si deve sempre a lei la prima vendita a Parigi del diciannovenne Picasso, che non abbandonò mai, anche nel momento più buio, quello che sarebbe passato alla storia come il “periodo blu” e in cui era al verde. Sono gli anni in cui le sue opere cupe sono invendibili e Pablo può contare solo sull’amicizia di Max Jacob, che non esitò ad ospitarlo nel suo appartamento, seppur gelido, dividendo con lui il suo magro stipendio e il letto: «I due trovarono subito una soluzione per dividersi equamente la branda. Jacob vi dormiva la notte - mentre Picasso lavorara al lume di una lampada a petrolio o di una candela […] -e Pablo vi si coricava al mattino, quando Max era al lavoro. […] Quando arrivarono i giorni più gelidi dell’anno, Pablo e Max erano davvero allo stremo: ora una scatola di sardine doveva durare una settimana. Picasso dovette bruciare decine di disegni e acquarelli per riscaldare quella loro misera stanza». Se non fosse esistito il Lapin Agile, rustica osteria immersa nel verde che rischiarò l’animo di Picasso, non ci sarebbero forse stati i quadri del “periodo rosa”, e in particolare quell’enigmatica Ragazza con cesto di fiori che attirò l’attenzione di Leo e Gertrude Stein (comprata per 150 franchi e battuta all’asta, nel 2018, per 150 milioni di dollari), che decretarono il successo del pittore che di lì a poco, osservando le linee essenziali dell’arte etnica, presente in casa dei ricchi collezionisti in forma di maschere e statuette, ispirò il “periodo cubista”. Estremizzando, senza Berthe Weill non avremmo la Guernica

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L’unico autoritratto mai realizzato da Amedeo Modigliani, 1919.

La “fata buona dell’arte moderna” ebbe un ruolo tutt’altro che secondario anche nella carriera di Modigliani (fu Weill ad allestire la prima ed unica mostra personale dell’artista livornese quand’era in vita), così come il Lapin Agile: se non si fosse ritrovato qui, ad affogare i suoi dispiaceri nell’alcool, Modigliani non avrebbe incontrato il pittore Henri Doucet, che gli consigliò di andare al Delta, dove lo attendeva quello che si sarebbe rilevato il suo mentore, Paul Alexandre. «Il vivere soltanto della sua arte, quando nessuno s’interessava alle sue opere, lo condannava alla miseria», dirà di lui il suo mecenate, tanto più che «non appena aveva dei soldi li spendeva» in compagnia di altri sconosciuti, ma presto celebri, beoni. Tra questi, il russo Chaïm Soutine, che conobbe a La Rotonde, «avvolto in un cappotto grigio ridotto a brandelli con le tasche zeppe di mozziconi sbriciolati e i piedi fasciati da carte tenute insieme con lo spago». Se il giovane Picasso barattava un pasto con un’opera d’arte e se Modigliani offriva ai clienti dei caffè i suoi ritratti in cambio di cinque franchi, Soutine non era raro vederlo rovistare nella spazzatura. «La sua impietosa Natura morta con aringhe», commenta Veneziani, «immortala fedelmente una condizione comune a molti artisti»: il vero protagonista è quel pasto frugale, costituito da tre pesci smilzi, poco costosi ma ricchi di grassi e proteine. 

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Chaïm Soutine, Natura morta con aringhe, 1916.

  • arthive.com

Il pittore livornese sarà poi aiutato da Léopold Zborowski, stregato dalla grandezza di “Modì”: «un pittore che vale due volte Picasso», a detta del mercante d’arte, che gli offrì uno stipendio, un tetto, quello di casa sua, tele e colori. Il destino non fu però generoso con Modigliani: a differenza di molti suoi colleghi, morì povero e irrealizzato. L’esposizione organizzata da Weill chiuse i battenti dopo poche ore dalla sua apertura, a causa degli “scandalosi” e “immorali” nudi in mostra, e pochi anni dopo il pittore morì di polmonite: «Il pavimento era ricoperto da fiammiferi, resti di carbone, bottiglie di vino vuote e scatole di sardine aperte. Amedeo giaceva nel letto privo di conoscenza».

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Maledetto Modigliani

Grandi Doc 19.09.2024, 20:35

Così si conclude il libro di Jacopo Veneziani, ma non lo spettacolo Parigi, che da quel 1920 prosegue fino agli anni ’60, epoca in cui si fanno spazio le donne: la fotografa e pittrice Dora Maar, l’artista Meret Oppenheim, la collezionista Peggy Guggenheim, l’attrice Kiki de Montparnasse e la diva Brigitte Bardot. Sono gli anni bui della guerra e dell’effervescente Café de Flore, dove si potevano incontrare i fratelli svizzeri Diego e Alberto Giacometti, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e un ormai arricchito Picasso, che non alloggia più in stantie stamberghe, ma possiede splendide ville. “L’argent”, tuttavia, non compra tutto e men che meno quella felicità che Picasso provò, a sua detta, solo nello sgangherato Bateau-Lavoir, insieme alla sua “banda”. Come osservò Patrick O’Brian, infatti, «divorare pane e sardine intorno a un tavolo coperto di fogli di giornale, con un solo tovagliolo per tutti, in uno studio che puzzava di trementina e in cui troneggiavano Les Demoiselles d’Avignon, era ben diverso che mangiare un numero regolamentare di portate in una sala da pranzo vera e propria, serviti da una silenziosa cameriera in grembiule bianco». 

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Pablo Picasso, Il pasto frugale, 1904

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