Teatro

Sulle tracce di Sergej P. Djagilev

Chinchilla, senza di lui i Ballets Russes non sarebbero mai esistiti

  • 9 luglio, 14:10
Sergej P. Djagilev
Di: Daniele Bernardi

Si dice che sua madre fosse morta di parto a causa della sua testa, troppo grossa per venire alla luce senza fare danni. Crescendo, di quella stessa testa si sarebbe molto preoccupato, tingendosi i capelli «per fingere di non essere vecchio», oppure ornandola con le mèches bianche che gli avrebbero valso, da parte delle ballerine, il grottesco soprannome di Chinchilla. Sarà a causa di queste fissazioni che Vaslav Nijinsky, suo amante e schiavo artistico (il leggendario ballerino da lui non fu mai veramente pagato), nei celebri diari della follia si dilunga sulla forma delle teste in relazione alle teorie lombrosiane, secondo le quali sarebbe possibile riconoscere un «uomo criminale»?

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Ma la testa di Sergej P. Djagilev (Perm’, 1872 – Venezia, 1929) valeva per altro, non certo per le sue civetterie da primadonna o in virtù delle sue manie in stile Weinstein.

Come scrive Sergio Trombetta nella sua bellissima biografia del sopraccitato Nijinsky (L’Epos, 2008), «parlare di Djagilev vuol dire affrontare una grande stagione nella storia dell’arte e dello spettacolo in Russia. Vuol dire soffermarsi su un momento in cui (…) gli intellettuali tornano a riflettere su se stessi e sul proprio passato, si aprono all’Occidente, scoprono nuove tendenze artistiche, nuovi musicisti e nuovi scrittori».

Era nato nella provincia di Novgorod da un giovane ufficiale delle Guardie a cavallo risposatosi con una donna di grande cultura dopo la morte della prima moglie. Iscrittosi all’Università di Pietroburgo per studiare Legge, Djagilev seguì corsi di canto e lezioni di composizione da Rimskij-Korsakov. I giudizi negativi del celebre compositore riguardo alle sue doti musicali lo persuaderanno presto ad abbandonare l’idea di diventare musicista, ma non quella di vivere nel bello dal quale era letteralmente ossessionato. In nome di questo, Djagilev era infatti capace di fare e di sopportare di tutto, dai debiti ai potenziali “nemici”.

Avvicinatosi alle arti plastiche e visive attraverso la frequentazione di un circolo di intellettuali pietroburghesi che annoverava fra loro Aleksandr N. Benois e Lev S. Bakst – futuri collaboratori di quella che sarà la celebre compagnia dei Ballets Russes – nel 1898 fondò la rivista «Mir Iskusstva», dove trovarono spazio le riproduzioni delle opere di tutta la nuova pittura dell’epoca. Il periodico esordiva con una sorta di manifesto scritto da Djagilev stesso, nel quale era esposta «una difesa dell’arte per l’arte» e un dichiarato gusto per il passato. Le sue doti furono quindi quelle dell’organizzatore culturale, inizialmente messe in pratica coll’allestimento di una serie di mostre e grazie alla sua capacità di chiamare a sé importanti mecenati.

L’approdo alla scena arrivò l’anno successivo, quando fu nominato direttore dei Teatri imperiali il principe Sergej Volkonskij, già collaboratore del «Mir Iskusstva». Questi gli affidò un incarico da funzionario per le «missioni straordinarie», aprendogli nuovi orizzonti d’azione. Nella sua nuova veste, Djagilev si distinse subito per l’audacia delle scelte estetiche, sostituendo il corpo degli artigiani accademici con la comunità dei suoi amici artisti.

Nonostante il successo di produzioni come il Sadko del sopraccitato Rimskij-Korsakov e la realizzazione della raffinatissima edizione dell’Annuario dei Teatri imperiali, le sue idee trovarono però forti resistenze e, dopo soli due anni, fu licenziato perché osteggiato da un personale che gli si opponeva. L’esperienza aveva però segnato il suo destino e, proseguendo nel suo percorso di «agitatore culturale» col «Mir Iskusstva» così come con esposizioni sempre più imponenti, assieme ai suoi adepti iniziò progettare una grande stagione teatrale parigina per far conoscere al mondo la grandezza culturale del proprio paese.

Le Pavillon d’Armide

Alexandre Benois (1870-1960). Le Pavillon d’Armide, Scene design for Armide’s Garden, Act II, 1909. Watercolor, ink, and pencil. Howard D. Rothschild Collection. pf MS Thr 414.4 (33). Bequest, 1989.

Fu in quello stesso periodo che conobbe Vaslav Nijinsky, nel quale riconobbe capacità artistiche straordinarie e a cui si legò attraverso una relazione morbosa che fu, al contempo, un incontro fra “grandi” e un rapporto imperniato sullo sfruttamento e il dominio. Allora il ballerino aveva diciannove anni e già faceva parlare di sé come di un vero e proprio fenomeno. Assieme alla sorella Bronislava, di un anno più giovane ma altrettanto talentuosa, aveva frequentato la Scuola imperiale di teatro e, terminato il percorso, era stato ammesso al Teatro Mariinskij.

Reduce dal successo di un’esposizione al tradizionale Salon d’Automne parigino e dalla presentazione del Boris Godunov di Musorgskij all’Opéra, Djagilev aveva appena intessuto una rete di importanti relazioni nella capitale francese in prospettiva di realizzare il suo piano. Quando nel 1909 si decise a presentare balletti quali Le pavillon d’Armide, Le Silfidi e Cleopatra coreografati da Michel Fokine presso il Théâtre du Châtelet, Nijinsky era già consacrato principale interprete assieme ad artiste del calibro di Anna Pavlova e Tamara Karsavina. Il risultato fu un trionfo. Nacquero quindi i Ballets Russes, evento epocale che impresse un segno indelebile nella storia della cultura europea sia dal punto di vista intellettuale che del costume.

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La fondazione della compagnia rappresentò da un lato un ponte fra due mondi, dall’altro un periodo di audace sperimentazione che, a partire da uno scavo attorno alle radici della propria storia, portò un gruppo sempre più numeroso di artisti a collaborare all’interno di ideazioni grandiose, che lasciavano il pubblico stupefatto e sedotto, estasiato e sconvolto. Infatti dopo il clamore per il debutto e per opere che attingevano all’immaginario del folklore russo – L’Oiseau de feu (1910) o il Petruška (1911) di Igor Stravinsky (altro nome fondamentale per la storia del gruppo) – Djagilev ebbe l’idea di affidare il ruolo di coreografo proprio a Nijinsky, la cui cifra stilistica si impose come un segno di radicale rottura con tutti i canoni classici.

L’Après-midi d’un faune (1912), Jeux (1913) e Le Sacre du printemps (1013) – i primi due di Claude Debussy e il terzo, com’è noto, sempre di Stravinsky – furono infatti creazioni che suscitarono scandalo sia per contenuto che per forma, poiché al loro interno vi erano riferimenti sessuali e contenuti aggressivi espressi attraverso un deflagrante utilizzo della dissonanza, dello squilibrio e della deformazione.

Ma il rapporto fra l’impresario e il ballerino, già carico di tensioni a causa delle sue ambiguità, era destinato a finire: nel 1913 Nijinsky si sposò con la nobile ungherese Romola de Pulszky, mandando Djagilev su tutte le furie e facendosi sbattere fuori dalla compagnia. Il suo posto venne subito preso da Léonide Massine, danzatore del Teatro Bolshoi il cui lavoro, improntato su una diversa gestualità rispetto a quella di Nijinsky, inaugurò una nuova fase nei Ballets Russes.

Ribadendo la sua capacità di creare condizioni di incontro fra uomini di genio, per spettacoli come Parade di Éric Satie (1917) – il cui soggetto era di Jean Cocteau (altra personalità essenziale per la storia della compagnia) – o Le Chant du rossignol (1920) di Stravinsky, Djagilev affidò la realizzazione di scene e costumi a Picasso ed Henri Matisse. E questi sono solo due dei tanti nomi che, negli anni, si succedettero fra una produzione e l’altra: in seguito venne l’epoca delle coreografie di Bronislava Nijinska, George Balanchine e Serge Lifar, delle scenografie di Braque e De Chirico, delle vesti a firma di Coco Chanel e di moltissimo altro ancora.

Spentosi nel 1929 a Venezia, dal punto di vista personale Sergej P. Djagilev ha lasciato un’immagine decisamente poco lusinghiera di sé: vorace, senza scrupoli e abusante, in nome del proprio tornaconto era pronto a calpestare il prossimo con la stessa tenacia con la quale si sarebbe speso nell’allestimento di un balletto. Ciò non di meno, senza di lui i Ballets Russes non sarebbero mai esistiti e un momento chiave del ‘900, che vide comunicare mondi lontani attraverso il confrontarsi di menti di straordinaria brillantezza, probabilmente non avrebbe avuto luogo.

Infatti, checché se ne dica, dopo la sua morte la compagnia sopravvisse per poco mentre, al contrario, i frutti artistici di quell’esperienza, attraverso il fiorire di nuovi percorsi inaugurati da chi di quell’avventura fece parte, continuarono a maturare nel mondo ancora per un lunghissimo tempo.

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