E venne un valoroso ignoto, il quale con una semplice statua iconica, trattata senza ombra d’affettazione, anzi con una sincerità a cui nel suo ambiente si era poco avvezzi, ebbe subito intorno una curiosità ansiosa a ammirata.
Sono alcune delle elogiative parole che il critico d’arte Tullo Massarani dedica a Vincenzo Vela nel 1879 nel saggio L’arte a Parigi. Vi troviamo condensate l’ascesa del grande scultore ticinese e la stima di cui seppe circondarsi, ma anche una importante testimonianza della sua personalità ingegnosa e delle sue notevoli doti scultoree, improntate su verità e schiettezza, lontane da qualsivoglia artificiosità.
Sì, perché quello di Vincenzo Vela, nato il 3 maggio 1820, fu un talento spontaneo e al tempo stesso rigoroso, che gli permise di imporsi, nella seconda metà dell’Ottocento, come uno degli scultori più apprezzati e richiesti, soprattutto dall’aristocrazia e dalla borghesia di ispirazione liberale. A ricordarci e raccontarci la sua ammirevole maestria sono tutt’oggi i tanti ritratti scultorei, i monumenti commemorativi e le statue funerarie sparsi tra l’Italia e il Canton Ticino. Dalla fierezza del Monumento Murat, collocato nel Cimitero della Certosa di Bologna, al vigore del Monumento a Garibaldi e alle Cinque giornate di Como, fino al suggestivo lavoro Gli ultimi momenti di Napoleone I, presentato e premiato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867 e acquistato da Napoleone III. Ma è soprattutto il Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, splendida casa-museo immersa nel verde della Campagna Adorna, a fungere da tempio dell’arte dello scultore ticinese, meta imprescindibile per chiunque voglia approfondire la sua conoscenza e ammirare dal vivo una parte rilevante della sua produzione, tra modelli originali in gesso, disegni e studi preparatori. Museo che in questi giorni festeggia il bicentenario dell’artista con svariate iniziative.
La vita e l'opera dello scultore Vincenzo Vela
RSI Cultura 13.04.2020, 15:59
Nato a Ligornetto, appartenente a una famiglia di umili origini, Vincenzo Vela comincia giovanissimo a lavorare come scalpellino nelle cave di Besazio e Viggiù. Ancora adolescente, si trasferisce a Milano, dove risiede il fratello maggiore, Lorenzo, scultore d’ornato. Nel capoluogo meneghino, Vela prosegue l’apprendistato come scalpellino presso il cantiere del Duomo e si iscrive quindi all’Accademia di Belle Arti di Brera, seguendo i corsi dello scultore Benedetto Cacciatori e del pittore Luigi Sabatelli. Fin dai suoi primi lavori giovanili, come la statua del Vescovo Luvini (1844) e la soave Preghiera del mattino (1846), custodita a Palazzo Morando, Vincenzo Vela viene subito notato per le sue eccellenti abilità artistiche, per l’autonomia rispetto ai rigidi dettami accademici e la spontanea aderenza al reale. Tra i suoi punti di riferimento ci sono tanto la vitalità naturalistica dello scultore Lorenzo Bartolini quanto le suggestioni della pittura di Francesco Hayez.
Ma, accanto al talento artistico, a spiccare fin dalla giovane età sono anche il suo spirito liberale e il suo impegno patriottico: il giovane Vela partecipa, infatti, come volontario alla guerra civile del Sonderbund e poi alla campagna contro l’Austria in Lombardia, in particolare alle Cinque Giornate di Como. I suoi forti ideali politici non tardano a riflettersi anche nelle sue opere: nel 1851, l’esposizione a Brera dello Spartaco consacra Vincenzo Vela tra i principali rappresentanti della scuola naturalista e tra i più importanti portavoce degli ideali risorgimentali in scultura. Lo schiavo ribelle ritratto da Vela nell’atto di spezzare le catene, imponente e veemente, viene accolto con successo come simbolo di denuncia contro ogni dispotismo, diventando una delle icone rivoluzionarie dell’arte del XIX secolo.
Videoschede Vincenzo Vela (Archivi RSI)
Da questo momento in poi, Vincenzo Vela riceverà innumerevoli commissioni, premi e onori. Nel 1852, però, a causa di contrasti con l’ambiente politico austriaco e data la sua vicinanza ai movimenti mazziniani pro Unità d’Italia, l’artista è costretto a lasciare il capoluogo lombardo. Si trasferisce così a Torino, dove trova il clima ideale e l’appoggio degli ambienti liberali. Nella città sabauda, Vela trascorre gli anni più intensi della sua carriera, sia come artista sia come docente presso l’Accademia Albertina. La prolifica stagione torinese lo vede dedicarsi alla realizzazione di importanti commissioni pubbliche e partecipare alle maggiori esposizioni nazionali e internazionali. Tra le molte opere scolpite in questi anni, il Monumento all’alfiere dell’esercito sardo, che spicca tuttora davanti a Palazzo Madama, il Monumento a Vittorio Emanuele II, collocato nel portico del Palazzo di Città di Torino, e quello a Camillo Benso Conte di Cavour per l’atrio della Borsa di Genova, purtroppo distrutto nel 1942. Tutte queste grandi figure della stagione unitaria italiana, così come gli illustri uomini di cultura (il compositore Gaetano Donizetti, lo scrittore Tommaso Grossi…), sono resi da Vela con sincero realismo, senza alcuna retorica né enfasi celebrativa: ci appaiono monumentali e al contempo umani, autentici.
Anche nel campo della scultura funeraria Vela manifesta una personalità distintiva e acuta, combinando in modo misurato e suggestivo allegoria e realismo, come nel dolcissimo Monumento funerario di Tito Pallestrini, dove il piccolo defunto è rappresentato giocoso e vivace mentre viene sollevato in alto da un grande angelo.
Dopo tanto fervore e clamore, nel 1867 Vincenzo Vela lascia Torino e l’insegnamento all’Accademia per fare ritorno con la famiglia a Ligornetto, dove trascorre gli ultimi 25 anni della sua vita. All’apice del successo, desideroso di maggiore tranquillità, lo scultore si ritira nella sua villa ai piedi del Monte San Giorgio, edificata con la triplice funzione di residenza privata, atelier e spazio espositivo dove custodire i modelli originali in gesso delle proprie opere scultoree. Un bellissimo, silenzioso ‘eremo’, oggi considerato tra le più importanti case d’artista dell’Ottocento europeo.
La libera caduta degli angeli
RSI Cultura 13.04.2020, 15:30
Tra i capolavori risalenti all’ultimo periodo della carriera di Vincenzo Vela non si può non ricordare l’altorilievo Le vittime del lavoro, realizzato in memoria degli operai morti durante i lavori di scavo del traforo del San Gottardo (conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma). Un’opera-manifesto imbevuta di istanze sociali e umanitarie, e tra i primi monumenti europei dedicati alla “classe operaia” e alla dignità del lavoro.
Non sono mai stato altro che un operaio: me ne sono sempre vantato. Ho sempre amato e ammirato i poveri oppressi, i martiri del lavoro, che rischiano la vita senza fare il chiasso dei cosiddetti eroi della guerra e che pensano solo a vivere onestamente”, affermò Vela a proposito di quest’opera, creata “senza averne avuta né la commissione né l’idea da nessuno.
E la medesima umiltà e misura, la stessa consapevolezza del proprio ruolo le possiamo rintracciare anche nelle parole scritte da Vela durante i suoi anni di insegnamento: “Cari allievi, io vorrei dirvi che l’arte a cui vi siete dedicati esige innanzitutto sacrifici non lievi. Guai all’artista che considera l’arte sua soltanto come un mezzo di lucro e l’abbassa al livello di una semplice manualità. Ricordiamoci che le statue passano alla posterità e che gli scultori non debbono essere giudicati soltanto dal loro secolo”.
Ebbene, osservando il ricco lascito di Vincenzo Vela, ci è possibile ripercorrere non solo la storia risorgimentale italiana e l’evoluzione della cultura artistica nella seconda metà del XIX secolo, ma anche la storia di un uomo che ha vissuto il suo tempo in prima persona, come artista “militante”, capace di trasmettere con la sua arte l’ansia di cambiamento di un’epoca.