Cinema

“Bogancloch” e “Luce”

Le recensioni dei film del concorso internazionale

  • 2 ore fa
  • 2 ore fa
bogancloch.jpg

BOGANCLOCH, di Ben Rivers

Jake Williams è un eremita moderno: vive nelle foreste e già nel 2011 era diventato il soggetto di un documentario firmato da Ben Rivers. A oltre 10 anni di distanza, il regista scozzese ha deciso di tornare a raccontare il presente di questo suo attore feticcio, già protagonista dei primi corti e appunto del film con cui questa coppia si è ancor di più solidificata.

Pochi, pochissimi i cambiamenti della quotidianità del protagonista, a differenza di un mondo che in questo decennio è decisamente mutato, nel bene e nel male. Un anno di lavoro; 5 viaggi in Scozia e un lavoro quasi maniacale: con una vecchia 16 mm, un treppiedi per realizzare sequenze lunghissime senza alcun movimento di camera (il più intenso è proprio quello finale, con l’immagine che si allontana lentamente dal soggetto immerso in una vasca bollente all’aperto).

Il tempo che passa, le piccole necessità quotidiane, i pasti frugali (addirittura un volatile morto, trovato a bordo strada, che diventa cibo per Jake e il suo gatto).

Ad intervallare i diversi momenti, alcune immagini, vecchie foto a colori che raccontano il passato del protagonista.

Tutto emozionale, molto poetico, con pochissime parole... giusto qualche canzoncina, che ci regala anche la carica ironica del personaggio, tutt’altro che sprovveduto. Ma 86 minuti, forse, sono un po’ tanti per raccontare questo spaccato di vita. Ne bastavano probabilmente 15.

Per come lo ha fatto Rivers, questo Bogancloch ci obbliga a lasciare fuori dalla sala tutto quello che viviamo, per tuffarci in un mondo davvero unico. E forse non per tutti. E questi 70 minuti in più sono probabilmente il prezzo da pagare per capire che, forse, tutte le nostre frenesie possono tranquillamente essere relativizzate. (di Alessandro Bertoglio)

LUCE di Silvia Luzi e Luca Bellino

Una giovane donna segue senza partecipazione una festa di famiglia, nessun sorriso e nessuna gioia sul suo volto. Quando però vede un drone, usato dal fotografo per filmare meglio l’avvenimento, si illumina e decide di mettersi in contatto con un misterioso interlocutore. Qui le cose si complicano, la sua quotidianità, scandita dalle ore in fabbrica, viene ripetutamente interrotta dagli squilli del cellulare. Tutto ciò che la attornia sembra perdere di senso: i battibecchi tra le amiche alla catena di montaggio, le discussioni con la zia e i momenti privati con la sua gattina Molly. Sempre più distratta e ossessionata dalla voce maschile, che a lei sembra quella del padre, la giovane inizia a chiudersi ancora di più in sé stessa.

Luce vorrebbe forse essere un thriller psicologico, ma potrebbe essere anche un’indagine su una vita senza futuro in un Sud Italia degradato da lavori estenuanti e sottopagati. Forse però i registi volevano rileggere l’esistenzialismo in chiave contemporanea? Chi lo sa. La trama arranca in maniera confusa, anche il bel volto di Marianna Fontana (che abbiamo visto in Indivisibili e in Capri Revolution) non prende vita. Il moto interiore dei suoi pensieri rimane lettera morta, come lettera morta rimangono le intenzioni dei registi. Nelle note di regia hanno dichiarato che: “Luce è una storia di pelle, di voci e fatica.” La fatica però è stata lasciata solo sulle spalle degli spettatori. (di Moira Bubola)

Speciale Locarno Film Festival

Il Quotidiano 10.08.2024, 19:00

Ti potrebbe interessare